Serra San Bruno: la città nata dalla Certosa.

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La storia di Serra San Bruno è intimamente legata a quella della omonima Certosa. Si pensa infatti che, attorno al 1094, quando il conte Ruggero assegnò a San Bruno di Colonia, il guardaboschi Mulè (con figli), fece in modo che gli operai impegnati nella costruzione dell’Eremo e della Certosa, parte dei quali sposati, si stabilissero a una certa distanza dai monaci, perché questi fossero da loro nettamente separati. Sorsero così le prime abitazioni che furono all’origine del paese di Serra. Tre ani prima, nel 1091 Bruno di Colonia, già fondatore della prima certosa presso Grenoble si lasciò ammaliare dal refrigero solitario e ameno delle Serre boscose e decise di fermarsi lì per trascorre gli ultimi anni della sua vita. L’importante uomo di chiesa raggiunse la lontana Calabria in compagnia del suo antico discepolo Urbano II°. Il papa si recava nei domini di Ruggero D’Altavilla a chiedere aiuto contro l’Imperatore Enrico IV° e l’antipapa. E fu appunto il re normanno a concedere a San Bruno un appezzamento ricco di foreste, acqua e monti, dove poter costruire un nuovo nucleo monastico, non lontano da Stilo, impregnata della cultura eremitica e cenobitica bizantina che si cercava di rimpiazzare. E la presenza della Certosa ha enormemente influenzato lo sviluppo architettonico del paese, infatti era ben nota la presenza di artigiani, artisti del legno, fabbri e decoratori.

Fondata il 24 giugno 1084 in Francia, nei dintorni di Grenoble, la prima Abbazia certosina, sei anni più tardi Bruno di Colonia era difatti stato convocato presso la corte vaticana da Oddo di Châtillon (suo ex discepolo) giunto in Italia nel 1080 ed eletto pontefice nel 1088 col nome di Urbano II. E se non già nel 1089, negli anni 1090-1091 Bruno fu certamente al seguito del papa nel Ducato di Calabria, ove gli venne offerta la nomina di vescovo. Ma Bruno, declinata la mitria, ottenne dal pontefice il consenso di potersi ritirare in solitudine sull’Altopiano delle Serre calabre, in un fondo fra Arena e Stilo donatogli da Ruggero d’Altavilla.

Qui, nella località chiamata Torre, a 790 metri di altitudine, nel cuore della Calabria Ulteriore, l’attuale Calabria centro-meridionale, Bruno fondò nel 1091 l’Eremo di Santa Maria di Turri o del Bosco. Non diversamente che a Grenoble, le celle dei padri eremiti – capanne di legno e fango, rustiche e primitive, ma solide abbastanza da resistere al peso della neve – erano distribuite intorno alla chiesa monastica: un edificio in muratura di piccole dimensioni, probabilmente simile alla Cattolica di Stilo o alla chiesa di S. Ruba in Vibo Valentia. La chiesa fu consacrata solennemente il 15 agosto 1094 alla presenza di Ruggero I di Calabria e Sicilia che, per l’occasione, volle ampliare la sua precedente donazione in favore di Bruno includendovi ulteriori appezzamenti di Stilo e i casali di Bivongi e Arunco (Montepaone).

Bruno ottenne il terreno mediante un atto steso a Mileto nel 1090. Arrivato nell’alta valle del fiume Ancinale, nelle vicinanze di Spadola (unico abitato allora esistente), ne seguì il corso verso una sorgente che si perdeva in un dedalo di piccole valli, di burroni e dirupi, dietro la radura di Santa Maria. Proprio in questa radura egli trovò «una buona fontana». Vicino alla stessa fontana vi era una piccola grotta e San Bruno si rallegrò d’aver trovato il luogo ideale per una fondazione monastica. Egli cominciò, quindi, ad organizzare i gruppi ed a fissare la loro rispettiva dimora: i padri, nella conca e radura del bosco (Eremo di Santa Maria); i fratelli conversi, con i servizi domestici, a circa due chilometri di distanza, nel monastero di Santo Stefano, destinato anche a ricevere coloro che non potevano seguire completamente le regole del deserto. Bruno, riprendendo il genere di vita che aveva condotto in Francia, trascorse così, nell’eremo di Santa Maria e nella vita contemplativa in solitudine, gli ultimi dieci anni della sua esistenza.

Determinato a trasformare la Casa “inferiore” di S. Stefano del Bosco in una comunità di tipo cenobitico sul modello così delle lavre bizantine come delle abbazie disciplinate dalla regola benedettina, nel 1192 Guglielmo da Messina – quindicesimo successore di Bruno e per la terza volta Maestro dell’Eremo di S. Maria – intrattenne i primi contatti con Gualtiero, priore dell’abbazia cistercense di Fossanova (Latina); indi si recò a Roma per chiedere al papa Celestino III (Giacinto di Bobone Orsini) “che la Certosa di Santo Stefano abbracciasse l’Istituto Cisterciense, che in quella stagione con grido grande di santità, e di rigore a meraviglia fioriva“. La transizione del Monastero di S. Stefano del Bosco dall’Ordine certosino all’Ordine cistercense, sancita con bolla pontificia dell’11 dicembre 1192 e assecondata dalla maggior parte dei confratelli di Guglielmo, comportò da un lato il totale abbandono dell’Eremo di S. Maria e dall’altro l’affermazione del Monastero di S. Stefano quale maggior centro ecclesiastico, amministrativo e organizzativo del Meridione, dotato di un patrimonio fondiario vastissimo con feudi e grange disseminate dalla Calabria Ultra, alla Puglia, alla Sicilia. Patrimonio talmente esteso e cospicuo da indurre a reprimere e scoraggiare perfino con la scomunica i reiterati tentativi di usurpazione messi in atto dai proprietari limitrofi.

Risoltosi con un nulla di fatto il primo tentativo (1496) volto a restituire ai Certosini il Monastero di S. Stefano affrancandolo finalmente dalla Commenda, nel 1513 il nuovo abate Luigi d’Aragona, forte del parere favorevole espresso dalla Corte di Napoli, ottenne anche il consenso del pontefice Leone X (Giovanni de’ Medici) che ne informò il priore della Grande Chartreuse di Grenoble ove, nel 1514, vennero definite le necessarie disposizioni attuative. La cerimonia della riconsegna (“recuperazione”) della Certosa di S. Stefano ebbe luogo in forma solenne il 27 febbraio 1514, alla presenza dei priori delle Case meridionali (Napoli, Capri, Padula, Chiaromonte) e degli esponenti più rappresentativi dell’aristocrazia calabrese e napoletana. Il 1º marzo 1514 il certosino bolognese Costanzo De Rigetis, già delegato dal Capitolo Generale a riprendere ufficialmente possesso del monastero, ne assunse di fatto la reggenza in qualità di priore. Già seriamente danneggiata dai numerosi terremoti che a partire dal 1604 si registrarono in Calabria, ma ancor più gravemente per effetto dei moti tellurici del 1638 e del 1693, il 7 febbraio 1783 la Certosa di S. Stefano fu ridotta a un ammasso di macerie da un sisma devastante del 9º grado della scala Mercalli.

I monaci poterono riprenderne possesso soltanto nel 1840 per allontanarsene di nuovo, ma volontariamente, nell’autunno del 1844; anche perché turbati dalla perdita del confratello portinaio Arsène Compain, ucciso dai briganti. Per concessione di Ferdinando II, vi fecero definitivamente ritorno con cerimonia solenne il 4 ottobre 1857, adattandosi a vivere alla meglio tra le rovine per qualche decennio ma provvedendo in proprio alle riparazioni più urgenti. Nel 1889 il Capitolo Generale di Grenoble affidò a François Pichat, architetto dell’Ordine, il compito di redigere un progetto complessivo di ricostruzione e restauro. Improntato alla riproposizione dei tipi edilizi e del repertorio morfologico romanico e barocco, il piano messo a punto da Pichat fu realizzato in modo sistematico e continuativo solo a partire dal 1894, in seguito a un sopralluogo dell’architetto francese in Calabria. il Refettorio, la Sala del Capitolo, la Biblioteca e la Cappella delle reliquie. Il nuovo complesso venne inaugurato nella festa di Pasqua del 1899, mentre la consacrazione della nuova chiesa ebbe luogo il 13 novembre del 1900.

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