Referendum costituzionale: analisi del voto e scenari possibili.

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La vittoria del No al recentissimo referendum costituzionale ha immediatamente catturato l’attenzione dei politologi che già misurano – numeri alla mano gli effetti del voto e tracciano scenari per il futuro. Cominciamo intanto col dire che il dato più positivo è quello dell’affluenza alle urne. Il 68.4% di elettori anche se lontano dalle performance delle grandi democrazie europee è certamente il dato migliore degli ultimi tempi. E’ un dato che però è sicuramente dovuto alla grande mobilitazione dei sostenitori del Si e del NO e non è detto che – passato il momento del test referendario – possa essere confermato alle politiche.

La vittoria del No non giunge inaspettata. Se infatti prendiamo a riferimento i voti dei partiti delle elezioni del 2013 – ultimo riferimento nazionale – vediamo che se si sommano le percentuali dei consensi a quel tempo ottenuti dalle varie forze del variegato fronte del NO (Lega nord, M5S, SEL, Forza Italia ecc) si arriva ad una percentuale del 60.5% che è quasi identica a quella ottenuta dai NO (59.2%). Viceversa i 12.515.000 voti andati al fronte del SI sono perfettamente coincidenti alla somma dei 12.503.000 voti raccolti complessivamente nel 2013 dai partiti dell’area di governo (PD, Sc, Ncd, ecc) che sostenevano la riforma Boschi.

Le sorprese arrivano dopo. Se infatti scomponiamo questo dato complessivo si nota che in 59 province i consensi complessivi delle forze che sostenevano il NO, rispetto al dato del 2013 sono in flessione. E’ il caso di tutte le province piemontesi, lombarde, umbre, toscane, marchigiane, molisane e di parte di quelle emiliane. Cioè significa che il fronte del Si (sostanzialmente composto dal PD e dai suoi satelliti) in queste aree ha saputo intercettare numerosi consensi rispetto a quelli conseguiti tre anni fa, arrivando addirittura a vincere in aree urbane come Milano e in regioni come l’Emilia Romagna, la Toscana e l’Umbria. Rispetto al 2013 i partiti del fronte del SI avanzano dell’8.7% al Nord rispetto al dato di tre anni, restano praticamente stabili al Centro e persono invece quasi nove punti nel Mezzogiorno. Viceversa in altre 48 province è il fronte dei partiti del NO ad aumentare i propri consensi soprattutto nel Triveneto e nelle regioni meridionali (Lazio, Calabria, Sicilia, Basilicata, Puglia, Campania, Sicilia e Sardegna).

Ne consegue che laddove la ripresa economica ha fatto sentire già i suoi effetti e il tessuto sociale ha retto meglio alla crisi, il fronte del SI ha allargato il suo tradizionale bacino elettorale. Laddove invece la crisi si è fatta sentire con più virulenza o dove ancora persiste è stato il fronte del No ad avanzare, in alcuni casi con punte di crescita del 20% come nel napoletano. A questa prima frattura geografica se ne aggiunge poi un’altra di tipo economico – sociale.  Nelle grandi aree urbane soprattutto del Centro nord, il SI vince tra i redditi superiori ai 30000 euro l’anno mentre il No sfonda in quelli sotto i 15000 euro l’anno.

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Si può quindi affermare con certezza che, senza la defezione di un buon 20-25% degli elettori che fanno riferimento alla cosiddetta minoranza di sinistra del PD – un 5-6% dei voti complessivi di questa tornata elettorale – e con una diversa politica del governo nel Mezzogiorno, il referendum si sarebbe giocato davvero sul filo del rasoio.

E se il variegato fronte del No può giustamente esultare del successo appare chiaro che anche i sostenitori del SI possono trarre qualche insegnamento dal voto. Cominciamo col dire che la dissidenza della sinistra PD come dicevamo molto ha pesato sull’esito finale del voto. Se infatti prendiamo i dati di undici città campione geograficamente distribuite (Cagliari, Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Firenze, Bologna, Parma, Padova, Brescia, Novara e Torino) si nota che il partito ha conservato in quasi tutte queste tra il 62% e il 79% dei consensi ottenuti nel 2013 mentre il restante 4% si è disperso nell’astensione e una percentuale del 25% si è diretta verso il fronte del NO. Uniche rilevanti eccezioni Napoli e Cagliari dove circa il 40% degli elettori PD ha votato No mentre a Reggio Calabria questo percentuale scende al 12% ma viceversa si conta un 30% di astensionisti tra i tradizionali elettori democratici. da notare inoltre che sulla linea del capo dimissionario del governo si sono riconosciuti l’80% dei suoi elettori, il 24% di quelli di Forza Italia, il 48% di quelli di Ncd, circa il 10% di leghisti, il 10 per cento degli elettori di FdI e il 16% di quelli della sinistra.

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Ma se Sparta piange, Atene certo non ride. Il fronte del Si ha infatti “fagocitato” sia gli elettori che nel 2013 avevano votato per l’area centrista – tra l’88% e il 100% di otto delle undici città campione ai quali dobbiamo aggiunger una percentuale compresa tra il 45% e il 68% della altre tre (Reggio Calabria, Palermo e Cagliari) ma si è presa anche un consistente fetta dell’elettorato di Forza Italia. Dai dati infatti appare chiaro che la vanteria berlusconiana di aver spostato un 5-6% di voti sul fronte del NO e l’ennesima colossale panzana del prestigiatore di Arcore. Se prendiamo infatti i dati delle suindicate città campione,  vediamo che il 21.4% dell’elettorato forzista si è astenuto – con punte del 30% in alcune città – mentre il 30.8% ha addirittura votato SI con punte oltre il 40% a Firenze e Bologna e del 36.8% a Brescia. Solo nelle quattro città del Sud si può a stento parlare di tenuta ma anche qui con percentuali inferiori al 60%, fatta eccezione per Cagliari che, con il 77% di voti per il NO, si conferma la città con l’elettorato forzista più fedele. Insomma una grossa fetta del ceto moderato è stata intercettata dal fronte del SI.

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Arrivando infine al M5S il voto referendario rivela una compattezza granitica del proprio elettorato. Le perdite verso l’astensionismo (intorno all’11% dei votanti pentastellati del 2013) sono modeste – fatti salvi i casi di Cagliari, Torino, Firenze e Parma dove si è astenuto tra il 17% e il 25% dell’elettorato grillino del 2013. Trascurabile il numero degli elettori che si sono orientati verso il fronte del SI con le eccezioni di Parma e Firenze dove l’apporto a questo stesso fronte è intorno al 14%. Interessante notare che una delle città in cui i grillini si discostano maggiormente dalla loro fedeltà al voto espresso dal loro movimento in occasione del referendum è Parma (la loro prima grande conquista dove poi è scoppiato il “caso Pizzarotti”) dove tra astensioni e voti andati al Si, si tocca il 32.4% delle l’elettorato grillino del 2013.

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Quali sono le lezioni da trarre dal voto?

Per quanto riguarda il PD a Renzi conviene capitalizzare il rilevante consenso andato al fronte del Si che è quasi interamente frutto del suo lavoro. Intanto ha fatto bene a dimettersi da Primo Ministro dando il segno di una coerenza mai vista in un paese dove nessuno di solito si dimette. Renzi non deve però commettere l’errore che fu di Bersani nel 2011 di appoggiare fantomatici governi tecnici come quello Monti, col rischio di dover sopportare da solo il peso di riforme impopolari che l’UE e i partner, Germania in testa, già chiedono. Meglio puntare su un governo istituzionale con un mandato temporalmente limitato per rendere omogenei i sistemi elettorali di Camera e Senato e dopo andare al voto. Nell’andare alle urne, ovviamente bisogna prima regolare i conti all’interno del partito, la cui scissione non solo è inevitabile ma a questo punto auspicabile.   Il referendum dimostra difatti che anche senza la sinistra interna, il PD con eventuali satelliti centristi, può ambire a rappresentare il 40% del’elettorato.

Anche il centro destra è a un bivio. Qui sono inconciliabili le posizioni di chi come Salvini e la Meloni puntano verso un partito lepenista di destra radicale e chi come Forza Italia o quel che ne rimane, tradizionalmente ha un elettorato moderato. L’Estrema destra inoltre in Europa, laddove governa o con i propri voti sostiene governi di centrodestra di minoranza è in regresso secondo tutti i sondaggi: è il caso della Norvegia, della Danimarca, della Finlandia, mentre appare chiaro che Marine Le Pen non arriverà mai all’Esileo (nei sondaggi il candidato della destra moderata Fillon la batterebbe oggi con il 63% dei voti) mentre in altre realtà come la Spagna o il Portogallo o L’Irlanda, l’estrema destra stesa neanche esiste. Solo dove non hanno mai avuto rappresentanza (Germania) o non hanno quasi mai governato (Belgio, Olanda, Austria) i partiti estremisti sono ancora in leggera ascesa. Come conciliare poi l’euroscetticismo radicale di Salvini con le posizioni del Partito Popolare Europeo in cui Forza Italia milita?

Gli unici ad aver il vento in poppa sono i grillini ma secondo tutti i sondaggi i tre poli – M5S, PD+alleati e un centrodestra esteso all’estremo – sono tutti intorno al 30-33% dei voti. Se si va al voto in questo modo nessuno vincerà e si dovrebbe tornare ad una grande coalizione imperfetta tra PD, centristi e Forza Italia. Per questo, contro gli “opposti estremismi” ne consegue logicamente che va varata un’intesa duratura tra i moderati dei due schieramenti, la sola che a mio avviso e non solo, può evitare la deriva grillina o gli sproloqui salviniani.

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