Quale Iraq vogliono gli ayatollah di Teheran

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Come le crepe del fronte sciita influenzano la lotta contro Isis

Fonte Oasis , Riccardo Redaelli

Travolti dalla sanguinosa ondata di settarismo religioso che squassa da anni il Medio Oriente, diventa sempre più difficile vedere le distinzioni e le differenze interne alle contrapposte comunità etno-religioso-culturali. Più difficile, ma proprio per questo ancora più utile farlo, al fine di non alimentare il processo estremamente negativo di riduzione della pluralità identitaria del Medio Oriente, da sempre la cifra caratteristica della regione.

In questo senso appare utile non indulgere nel semplicismo della dicotomia sciiti-sunniti. La polarizzazione e politicizzazione di questa identità culturale e religiosa è sotto gli occhi di tutti; tuttavia, sarebbe assurdo guardare al “fronte sciita” – in particolare in Siria e Iraq – come se si trattasse di uno blocco omogeneo che persegue i medesimi obiettivi. Al contrario, dietro il compattamento a cui sono stati spinti dall’aggressività del radicalismo sunnita salafita e salafita-jihadista, gli sciiti del Medio Oriente mantengono profonde diversità di identità, di visioni politico-religiose e di interessi.

Prima fra tutte non va sotto-stimata la grande pluralità di correnti e sottogruppi della Shi‘a, un arcipelago diversificato; vi è poi la cesura etnica all’interno della corrente più rilevante – ossia gli sciiti duodecimani – divisi in sciiti di etnia araba, turca e, ovviamente, persiana (i più numerosi e importanti). E la profonda rivalità fra arabi, turchi e persiani non è certo scomparsa.
Sia pure meno visibile, ancora più importante è forse la divisione fra le massime autorità sciite duodecimane. Esiste da decenni una rivalità religiosa e geopolitica fra Qom – la città cuore del clero iraniano – e le città sante di Najaf e Kerbala, i centri della religiosità sciita che si trovano in Iraq. Dopo la rivoluzione iraniana del 1979, la rivalità si è andata accentuando, con Qom che sostiene, almeno ufficialmente, la dottrina khomeinista del velayat-e faqih (la supremazia del giurisperito, ossia il controllo diretto del clero sulla politica), mentre le scuole teologiche di Najaf si sono sempre opposte a questa visione, percepita come una pericolosa deviazione.

Anche dopo l’invasione anglo-americana del 2003, le differenze non sono venute meno. La massima autorità in Iraq, il marja‘ al-taqlid (fonte di imitazione), ayatollah ‘Ali al-Sistani, pur giocando un ruolo decisivo nella costruzione di un nuovo Iraq a guida sciita ha sempre contrastato l’azione politica diretta del clero, cercando anche di rintuzzare le pesanti interferenze iraniane, che sono arrivate a “sfidarlo” nella stessa Najaf, con la creazione di scuole religiose improntate alla visione del velayat-e faqih e con il sostegno finanziario e politico a partiti religiosi iracheni.

Il crollo delle forze armate irachene e la nascita del califfato jihadista di Abu Bakr al-Baghdadi nel 2014 hanno tuttavia forzato al-Sistani ad attivarsi per sostenere una risposta “sciita” alla minaccia mortale rappresentata da Isis (che considera gli sciiti come apostati, quindi meritevoli di morte). Da qui il suo appoggio alle Forze di Mobilitazione Popolare, al-Hashd al-Sha‘abi, milizie sciite create dal governo iracheno. Si tratta di milizie fortemente sostenute, armate e addestrate dai pasdaran iraniani e quindi controllate indirettamente dalla Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei. Per al-Sistani, queste milizie erano una risposta inevitabile a una situazione potenzialmente catastrofica, ma dovevano rappresentare soprattutto forze di matrice nazionalista per liberare l’Iraq, più che uno strumento di lotta settaria. Al contrario, gli iraniani le hanno trasformate in milizie di chiara impronta religiosa, assoldando volontari sciiti provenienti da diversi Paesi e rendendole uno strumento più fedele a Teheran che a Baghdad. La preminenza dell’aspetto settario ha causato vendette ed eccessi da parte dei miliziani sciiti nelle aree sunnite riconquistate: fatti che hanno indignato al-Sistani, il quale da molti anni invita alla moderazione e a non fomentare l’odio intra-religioso, la prima causa del collasso statuale iracheno.

Più profondo ancora il dissidio sulla politica regionale: il grande ayatollah iracheno predica da sempre prudenza e un atteggiamento di compromesso verso gli altri Paesi arabi e verso i sunniti; Khamenei e i pasdaran sono invece convinti che si debba ottenere una chiara vittoria militare in Siria, sostenendo a qualunque costo Bashar al-Assad, un leader cruciale per gli interessi strategici iraniani. E questo anche a costo di rafforzare l’ostilità dei sunniti arabi contro gli sciiti.

Insomma, al-Sistani ragiona soprattutto in termini religiosi e di riduzione dello scontro settario dentro e fuori l’Islam, avversando il coinvolgimento diretto del clero sciita negli affari politici, con una prospettiva che parte sì dall’Iraq ma che guarda agli interessi dei fedeli sciiti di tutta la regione. Al contrario, Khamenei e i “politici con il turbante”, come gli iraniani chiamano i religiosi iraniani impegnati direttamente nella gestione del potere, ragionano in termini politico-strategici, anteponendo gli interessi nazionalisti iraniani a ogni altra considerazione (nonostante la retorica pan-sciita del regime post rivoluzionario di Teheran).

Di fatto, sono due modi praticamente inconciliabili di rappresentare una guida e un modello religioso. Di certo al-Sistani non ha il potere politico – e tanto meno quello militare – di Khamenei. Ma il crollo del carisma del clero sciita in Iran e la disaffezione di milioni di iraniani verso l’Islam contrastano con il permanere dell’autorità morale – che si traduce in influenza politica – del vecchio al-Sistani, considerato da decine di milioni di fedeli come la massima autorità religiosa e l’unica vera “fonte di imitazione”. E come il miglior argine che la tradizione sciita ha a Najaf contro la pericolosa “innovazione” dottrinale rappresentata dal pensiero rivoluzionario di Khomeini.

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