Viaggio nei ricordi/1 – i pomeriggi nella Nicotera della mia adolescenza.

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Un mio amico che in uno dei suoi tanti scritti ha stigmatizzato con arguzia le abitudini pantofolaie dei nicoteresi, sarebbe rimasto piacevolmente sorpreso della colorata e gioiosa frenesia con cui i giovani della mia generazione affrontavano i loro pomeriggi.

Il pranzo era appena terminato che subito ci si aggrappava alla cornetta del telefono a chiamare gli amici, con grande disperazione dei genitori, figli di un era in cui non ci si poteva alzare dal tavolo prima del capofamiglia (“aiu mu pigghiu mu staccu stu telefunu, guardalu jà ca ancora non ci calau manku u mangiari nta panza a stu fitusu”).

Il rito della telefonata delle due – (o delle tre se si doveva chiamare una amica, in quanto le femmine alle due erano tutte prese dalla visione delle soap opera che allora imperversano e che anche i maschi guardavano in segreto come “Quando si ama” o Santa Barabara” e che certo erano meglio di tante boiate trasmesse oggi) – era un qualcosa di irrinunciabile, nel quale non solo si programmava la giornata, in quanto non esistevano e-mail o sms, ma soprattutto ci si scambiava impressioni sui fatti (”u vidisti, u sentisti………”) e, nel caso del gentil sesso, minuziose descrizioni dei “taliamenti” della mattinata (“u vidisti comu mi guardava ma io fici finta i nenti……”).                 Il bello poi era che, per la nostra delizia, la chiamata urbana allora costava appena duecento lire e quindi potevi parlare quanto diavolo volevi, specie se avevi la fortuna di avere il telefono in camera tua.  Ma se il telefono era nel corridoio allora la telefonata, per non essere “intercettata” dalle madri sempre in ascolto come i radar di Malpensa, era tutto uno slalom di mezze parole, grugniti, risatine, doppi sensi, frasi lasciate a metà, tanto a buon intenditore poche parole.

Terminato il colloquio telefonico, si usciva una prima volta, per prendersi un caffè. Allora i bar erano tutti aperti fin dalle primissime ore del pomeriggio o addirittura non chiudevano mai in quanto capitava che i diversi membri della famiglia che possedeva un dato bar si alternassero al bancone. Così i vari Mercuri, Solano, Alabastro, Fiaschè, D’Aloi erano già lesti ad accoglierti con le tazze in mano e la caffettiera pronta e il profumo del caffè riempiva le strade.

Un “giro di perlustrazione” fugace e poi si faceva ritorno a casa, ovviamente per studiare, ma con la testa già all’uscita successiva. Verso le cinque, d’inverno, è già buio e allora sembrava ancora più buio in quanto l’impianto della pubblica illuminazione era così obsoleto che se avesse potuto dire la sua avrebbe ricordato l’ingresso di Garibaldi a Nicotera, conferendo al contesto un aspetto spettrale che però aveva anche il suo fascino. E a quell’ora, frotte di motorini si lanciavano sulle strade del paese (“ma comu già finisti u studi, vogghiu u viu comu catinazzu fai all’esami!”) per la celebrazione di quello che era un’altra abitudine fissa della giornata: la merenda.

Le mamme dopo aver sbrigato le faccende di casa, già verso le quattro cominciavano a preparare degli ottimi spuntini (toast, cioccolata calda, tè, biscotti) rigorosamente fatti in casa per via della loro atavica diffidenza verso i prodotti industriali (“Io i fazzu comu mi ‘mbizzau mama”). Io ricevevo quasi ogni giorno delle visite perché mia madre era rinomata per le sue leccornie, ed era  uno dei tanti modi che vi erano per socializzare. La casa si riempiva di odori, risate, sguardi ed era anche il momento ideale per scambiarsi libri da leggere, musicassette, ecc. A volte ci si riuniva tra maschi oppure se si era il confidente fidato (perché ognuna aveva il suo e ci si fidava di lui più della sua stessa razza) di una o più amiche, ci si ritrovava con il gentil sesso. Di tanto in tanto poi, chi riceveva, aveva la cattiveria di invitare al convivio il “cazzaro” della propria compagnia (ogni compagnia aveva il suo “cazzaro” d’elezione) così da dargli un po’ di corda e ridere beatamente alle sue spalle con le incredibili storie che questi si inventava, spesso di sana pianta.

Verso le sei, quando il paese era ancora pressoché deserto, animato solo dalle luci dei negozi, le ragazze davano segni di inquietudine perché avvicinandosi l’ora della passeggiata serotina dovevano rincasare alle proprie dimore per cambiarsi d’abito. Si rimettevano quindi in sella ai propri scooter – che spesso facevano i capricci dando vita a delle inenarrabili scenette (“cosu lordu e parti iamu, fitusazzu bruttu, guardi si parti”….. ) – e cominciavano a strombazzare con il clacson, per intimarci di darci una mossa a noi maschietti che eravamo rimasti su a darci una rinfrescata e a cambiarci anche noi d’abito, mentre le nostre madri ci stressavano (”ma chi ti mentisti, cacciati subito sta cosa ca pari nu zulù…..”).

Il rito della merenda si intersecava poi – dalla prima domenica di novembre (“dopu di morti”) alla candelora (“u dui i febbraiu”) con quello dell’abituale partita a carte quando per l’appunto i salotti delle case (io ricordo con affetto quelli di casa Mangone, casa Ricottili, casa Fabbricatore, casa Ferraro, casa Calogero, casa D’Ambrosio-Bramanti, ecc.) ospitavano a giro frotte di amici non per il gusto di giocare ma per stare insieme, per condividere i piccoli piaceri della socialità. Se faceva freddo, si rimaneva a giocare fino all’ora di cena, altrimenti dalle cinque alle sette e poi tutti imbacuccati si affrontavano i rigori dell’inverno, che allora erano decisamente più rigidi di quelli odierni, per andare a passeggiare dietro al Castello.

Si giocava a carte tutti seduti nel tavolo del salotto e non come oggi ai giochi importati tipo Texas Holdem ma a “sette e mezzo”, “briscola”, “scopa”, oppure con i giochi di società (Risiko, Monopoli, ecc.). La compagnia era tutta allertata fino all’ultimo soldato e nessuno restava mai a piedi  in quanto, con puntualità svizzera, gli amici dotati di macchina o di moto venivano fin sotto casa a prenderti e portarti al luogo della riunione prefissata.

Io ad esempio ricordo questi assembramenti che si svolgevano a casa dei miei amici Fabbricatore dove la mamma dei quattro fratelli Fabbricatore, ci preparava ogni sorta di ben di Dio e dove si giocava nel grande salotto che dava sulla provinciale Foschea o quelli a cui sovente partecipavo, con i miei  ex compagni di Liceo e altri amici, nello studio del compianto padre di Andrea Ferraro (“u ngigneri”) o ancora alla villa del temutissimo Luca Calogero (“u figghju du presidi”), temutissimo in quanto abbinava un abilità di gioco non comune con una fortuna che gli aveva valso il benevolo soprannome di “Luca u scassatu”!

Durante queste serate era poi d’obbligo giocare ascoltando Radio Gabbiano verde, dove l’amico di turno ci mandava via etere i suoi saluti, ovviamente non mancando di sottolineare dove fossimo e con chi fossimo (“saluto gli amici della cricca riuniti oggi a casa……………….”) in attesa che il programma finisse e ci raggiungesse pure lui a raccontarci le ultime novità musicali del momento. Al tavolo era un autentica “camurria” fatta di batttute, sfottò agli avversari, richiami alle partite precedenti (“stasira non è comu l’atra sai nimalju, stasira ti fazzu nirigu”) mentre ogni tanto qualche coppietta si sfilava suscitando la disapprovazione generale dei presenti (“Ma venistivu u jocati o venistivu u vi mungiti cazzarola?”)

E non di rado capitava che finita la partitella si spostassero di lato, sedie e tavoli, si metteva una luce stroboscopica al centro del soffitto e si dava il via alle danze. Momento attesissimo in quanto aver tra le braccia una ragazza era cosa che non capitava spesso. E anche qui non mancavano discussioni sulla scelta delle canzoni, tra i fautori della musica da discoteca tipo radio Deejay (“senti comu pista”) e i più raffinati – quelli tipo RDS cullati dalle sensualissima voce di Rosaria Renna – che propendevano per i grandi classici italiani (Vasco Rossi, Litfiba ecc.) e stranieri (Pink Floid, i Queen, ecc.) e che si scagliavano veementemente contro i primi (“A stortu i fera e tu chista ma chiami musica, chista cà è musica?).

Verso le sette, massimo sette e mezza, se il freddo non era troppo intenso si usciva, rigorosamente a piedi e ci si avviava verso l’affaccio del Castello.  Ognuno aveva la sua compagnia che arrivava a contare almeno una ventina di persone e che anche nel passeggio si strutturava in maniera precisa: davanti i single a braccetto con le amiche e dietro le coppiette, quasi a proteggerne l’intimità. Quando si arrivava all’Affaccio poi, ogni comitiva prendeva posto sulla sua panchina (che non erano disposte come oggi come le anonime file dei sediolini di un autobus) o sulle splendide “rotonde”: le ragazze sedute e i maschi rigorosamente in piedi. Anche in questo breve lasso di tempo che ci separava dal desinare (la ritirata era per tutti alle otto e mezza e non si discuteva), le coppiette ne approfittavano per dileguarsi, subito braccate dai rispettivi genitori che in macchina giravano e rigiravano, con noi altri  a fare da palo e sempre pronti con lo scooter ad andare a avvertire i nostri Giulietta e Romeo (“vi ca c’è paita chi avi na ura chi gira e ti cerca, moviti e torna arretu au Casteju”).

Ovviamente per noi maschietti la routine si spezzava una volta la settimana quando ci si riuniva alla sezione del partito per la riunione settimanale del direttivo (alla sezione che frequentavo io era il mercoledì) che poi una volta al mese si allargava a tutti gli iscritti. Poi immancabilmente si faceva tappa alla palestra di Alberto Capria che era frequentatissima dove ci si intratteneva con gli amici e con lo stesso affabile padrone di casa.

Il sabato sera invece, piuttosto che giocare a carte o si restava a Nicotera e si andava tutti alla messa vespertina, che oltre ad essere un altro modo per stare tutti insieme, era anche uno dei posti deputati al “taliamento” delle ragazze difficili, quelle che praticamente da casa non uscivano quasi mai da sole, ovvero non facevano parte di nessuna comitiva, oppure si usciva fuori paese per andare al cinema, a Gioia Tauro o Vibo.

Poi non si rincasava e dalle cabine telefoniche ognuno avvertiva casa che quella sera si sarebbe cenato fuori in pizzeria, dando vita all’estenuante trattativa per fissare l’orario di ritorno e al consueto interrogatorio (“Ma aundi vai, cu cu vai, quando torni, nommu mbivi”). Questo tranne nel periodo di Natale quando si organizzavano i dopocena in casa, nella speranza che l’indomani ci si risvegliasse innevati (come accadde la notte di Natale del 1994, quando come incantati, uscimmo per le strade del paese a gustarci lo spettacolo) o ci si fermava a cena a casa di amici.

A volte invece si organizzava qualche spedizione, e se dall’affaccio l’Aspromonte ci appariva tutto imbiancato, allora la meta non poteva non essere che Gambarie, dove si passava delle ore a “pirriccioliarsi” sulla soffice materia bianca.

Con l’arrivo della bella stagione, generalmente dopo Pasqua, le abitudini del pomeriggio cambiavano un pochino. Anche in questo caso si usciva presto, verso le due e mezza (nel pieno  “da cuntrura”), portandosi dietro qualche leccornia o facendo approviggionamento al bar Italia dove si compravano le vaschette del gelato e poi si filava diritti alla Madonna della Scala (dove sovente incontravi “già bellu tostu” compare Rigoletto che aveva eletto il luogo a suo personale tempio di Bacco) o a Joppolo, ovviamente “sutta A Turri”. Poi dopo un pò ci si ritirava per la siesta pomeridiana che allora come oggi è cosa sacra.

D’estate poi entravano in scena altre variabili perché c’era a chi piaceva andava al mare – con l’eterna disputa tra i “pro-Preicciola” e i pro-Curizzi”- e chi o organizzava brevi escursioni a Capo Vaticano o a Zambrone all’Acquapark o chi, come i più avventurosi, in comitive di tre-quattro persone al massimo, si lanciava sulle strade rese infuocate dal caldo, puntando la bussola verso le Serre, l’Angitola, lo Zomaro dove la frescura era assicurata.

Di sera poi, ovviamente, la città da addormentata che era, cominciava ad animarsi verso le nove. Anche in questo caso, tranne le poche volte che si decideva ad andare a Pizzo per un tartufo o a Tropea o alle prime discoteche della zona (Mocambo, Casablanca, ecc.) si rimaneva in loco ma questo solo dopo aver “assaggiato” il clima all’Affaccio del Castello, nel senso che, se la serata era ventilata, si restava lì a giocare a carte sulle rotonde o si andava a passeggiare nei meandri della Giudecca e del Borgo oppure, in caso contrario, si scendeva giù in marina sul lungomare.

Sovente infine, si organizzavo falò sulla spiaggia – e non solo la Notte di san Lorenzo quando il litorale era punteggiato da una miriade di fuochi dalla Preicciola fino al foce del Mesima – o improvvisati “bagni di mezzanotte” dove il malcapitato di turno spesso finiva in acqua lanciandoci poi dietro tutto il suo bagaglio di maledizioni (“bastardi, cosi lordi ca pozzu moriri ca haju ancora u mangiari subba u stomacu…”).

Allora il paese si animava fin dalla chiusura delle scuole e si attendeva il ritorno delle famiglie emigrate che ripopolavano interi quartieri e ci si vedeva con tanti amici.

Grande era l’attesa – come oggi – per la festa di Ferragosto che segnava lo spartiacque della stagione (“jamu ca spararu i bumbi, a natru pocu potimu cacciari i pastura du presepi”): la ruota del tempo aveva compiuto il suo ciclo abituale e ricominciava a girare.

 

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