Il CeSNi (Centro Studi Nicoterese) ricorda l’anniversario della grande incursione barbaresca su Nicotera.

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Il CeSNi (Centro Studi Nicoterese), nato anche con il proposito di valorizzare gli aspetti più belli della storia cittadina, ci ricorda che tra oggi e domani – 19 e 20 giugno – ricorre una di quelle date altamente simboliche tra quelle incluse nel grando libro della millenaria storia della città.

“Il 19 giugno 1638 – si legge nella nota del CeSNi – infatti, il torriere di una delle torri poste a difesa della città, esattamente quella di Parnaso oggi detta di Joppolo, scorse in mare delle barche in attività di bordeggio. Accese quindi dei fuochi sulla spianata antistante la torre per segnalare ai torrieri posti a guardia della nostra città, il potenziale pericolo; fuochi che essi però non videro o mancarono di segnalare a chi di dovere. Verso la mezzanotte quindi, una flotta composta da sedici galee e due galeotti con a bordo due distinte ciurme di Algerini e Tunisini, prese terra, una parte nella spiaggia di Nicotera marina e l’altra parte presso la scogliera della Preicciola. La composisione della flotta ci è nota grazie ad un atto del 30 giugno 1638 stilato dal notaio Filippo De Luca”.

  

           

“I pirati barbareschi – si legge ancora nella nota – si divisero in due gruppi: quello sbarcato alla Marina si dirisse in direzione della città presso la Porta Palmentieri mentre quello sbarcato alla Preicciola, avanzando da ciglione a ciglione, guadagnata l’altura, si diresse al Monastero di S. Maria delle Grazie, saccheggiando dapprima questo luogo sacro e indi, penetrando in città ai primi albori del giorno, passando per la Porta Foschea (sita atramontana tra i bastioni di cinta e il castello) che non era stata chiusa – o per incuria o per dolo – dal rinnegato Gianandrea  Capria”.

“Qui – continua la nota – si innesta la figura di questo rinnegato che sarebbe stato un onesto padrone di barca  che era stato costretto ad abbandonare Nicotera perchè era stato disonorato dal Conte Ruffo che ne aveva sedotto la figlia Giovannella, recandosi poi a Tunisi per offrire i suoi servizi all’emiro che governava quella parte dell’Africa settentrionale e meditando la vendetta. Saputo che il Ruffo si trovava a Nicotera, convinse l’emiro a allestire una spedizione contro la sua città natale. Ma mentre la flotta barbaresca si trovava ancora a largo delle coste calabre, il Ruffo, sbrigati i suoi impegni in loco rientrava a Scilla il 15 giugno 1638, pochi giorni prima dell’arrivo dei pirati. Al Capria – sopraggiunto a Nicotera – non restò altro che punire la figlia uccidendola, dando poi fuoco alla sua casa. Non ci è dato sapere – avvertono gli amici del CeSNi – se questo fatto accadde veramente o se è una ricostruzione postuma per giustificare col tradimento di un nicoterese, il fatto che chi dovesse sorvegliare la città non avesse dato l’allarme dell’arrivo della flottiglia barbaresca. Tuttavia questa tradizione – secondo lo storico Diego Corso – sarebbe confermata da due testimonianze: la prima quella del Sergio (Chro. Coll. Civit. Tropeae) che menziona la figura di Gianandrea e la seconda dal Sorace che accenna ad una donazione fatta alla cappella del Santissimo nell’ottobre del 1636 da una certa Giovannella Capria che restò arsa viva nella sua casa dai turchi che saccheggiarono la città il 19 giugno 1638”.

“Penetrati dentro la città – afferma ancora la nota del CeSNi – i pirati barbareschi colsero i cittadini praticamente nel sonno. Nessuno, nello scompiglio causato dal loro arrivo, pensò di organizzare una seppur minima resistenza. Il sacco della città – come riportano numerosi fonti – fu orribile – e i pirati misero la taglia sulle donne più giovani, sui bambini e sui cittadini anziani ritenuti più facoltosi traducendo in prigionia persino dei religiosi. L’abitato, l’episcopio stesso con la curia vescovile, gli archivi pubblici e la casa comitale vennero dati alle fiamme e venne danneggiato, tra le altre cose, il Crocifisso collocato nella Cattedrale che fu sforacchiato da sette colpi di moschetto”.

“Tra i prigioneri – conclude la nota – vi era anche il sacerdote Giuseppe Adorisio – il quale trasportato a Tunisi e venduto come schiavo ad un mercante, riuscì a fuggire con un imbarcazione di fortuna venendo raccolto in mare da una nave cristiana che lo sbarcò a Reggio Calabria, da cui poi rimpatriò a Nicotera. Qui, trovato il popolo intento a erigere la chiesa di Gesù e Maria, fece costruire a sue spese l’altare maggiore apponendovi un quadro che rappresentava Gesù e la Madonna che sostenevano una croce. Quadro che – come ci racconta sempre il Corso – esistette fino al 1852, quando per incuria del vicario Glè venne distrutto e sostituito con un altro. Il vescovo Pinto avrebbe poi nominato rettore della chiesa in questione lo stesso Adorisio”.

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