Pizzo Calabro: da uno studio emerge dagli abissi della storia una antica cava.

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Pizzo Calabro, la cittadina turistica costiera vibonese conosciuta per le note vicende relative al Re Gioacchino Murat, per i suoi tesori storico-artistici, l’apprezzatissimo tartufo e lo splendido mare, non finisce mai di stupirci. E’ proprio dal mare, arriva una notizia che farà sicuramente piacere non solo a tutti gli appassionati  di storia e di archeologia ma che può costituire un ulteriore arricchimento del già cospicuo patrimonio dei beni culturali presenti in questa città.

Un antica cava sarebbe infatti allocata sul territorio comunale del noto centro turistico costiero vibonese. Lo testimonierebbe l’estratto di uno studio (firmato dall’insigne archeologo Francesco Cuteri, dal sub e fotografo romano Stefano Mariottini, scopritore dei Bronzi di Riace e dall’ex sovrintendente ai beni archeologici della Calabria Maria Teresa Iannelli)  pubblicato nel 2013, sul n. 17 della collana Archeologia Postmedievale (“Archeologia delle risorse nella montagna mediterranea”) curata da Anna Maria Stagno che riprende una delle proposte fondanti dell’archeologia postmedievale italiana e cioè l’archeologia delle risorse ambientali, raccogliendo i risultati dell’International Workshop on Archaeology of European Mountain Landscapes tenutosi a Borzonasca (GE) il 20-22 ottobre 2011 promosso dal laboratorio di archeologia e storia ambientale dell’Università di Genova e finanziato dal Parco Naturale Regionale dell’Aveto che si proponeva di individuare insediamenti e aree di lavorazione di materiale litico sulla costa tirrenica vibonese a partire dall’età preistorica fino al Medioevo.

Secondo questo studio difatti, appare evidente che l’alta concentrazione di aree di estrazione  sul litorale costiero vibonese è determinata non solo dall’esistenza di particolari affioramenti rocciosi ma anche dalla presenza di porti e luoghi d’attracco. E tra i siti studiati, particolarmente emblematica è proprio la cava di calcarenite di Pizzo calabro.

“La cava –si legge sempre nello studio in questione – si svilupperebbe lungo un tratto di costa di circa 1000 metri compreso tra la Chiesa di Piedigrotta e insenatura della Seggiola” (nella foto). Un area che gli stessi autori dello studio definiscono di “notevoli dimensioni e che ha profondamente mutato la morfologia della linea di costa sia per le tracce di coltivazione a cielo aperto poste a livello della spiaggia e sia per la formazione della falesia che rappresenta il residuo fronte di cava determinato da una intensa lavorazione a gradini”. La cava stessa “per la diversità dei tagli effettuati nel lungo sviluppo dell’impianto”  è stata suddivisa in ben cinque aree: la prima attigua a Piedigrotta “con tracce di coltivazione del tipo a forma aperta con blocchi risparmiati e canali di escavazione tracciati sul tetto del riaffioramento, e coltivazioni a ciel aperto evidenziate da vasche di estrazione nelle cui adiacenze rimangono alcuni dei blocchi cavati che presentano fori circolari da riferire a opere di sostegno per ricoveri  o alle attrezzature utilizzate per la movimentazione degli elementi lapidei”; la seconda che inizia con l’alta falesia che poi termina in mare su cui “è possibili notare tracce di coltivazioni a gradini, un blocco non distaccato e e una grotta” ed è caratterizzata dalla presenza “di una tagliata e di lavorazioni poste al livello del mare o vasche che hanno esaurito completamente la capacità di coltivazione”; la terza che si sviluppa lungo la cresta del pianoro e sulla cui superficie “risultano evidenti sia l’intensa coltivazione a gradini e sia quella a cielo aperto con vasche per blocchi di grande dimensioni”. In questa zona “l’analisi della terra di discarica ha poi consentito di individuare la presenza di numerosi frammenti fittili di età romana frammisti a materiale moderno; la quarta, che “presenta una morfologia del tipo a gradinate o ad anfiteatro caratterizzata dalla coltivazione a gradini di piccoli blocchi destinati all’edilizia o alla realizzazione delle cosiddette mazzarre  utilizzate nelle tonnare per l’appesantimento delle reti”, nonché “nel tratto terminale del banco roccioso ora in parte sommerso, numerose tagliate e riseghe che evidenziano le modifiche apportate alla linea naturale di costa”; infine il tratto finale che inizia al cosiddetto Scoglio catena”.

Nello studio si apprende inoltre che nell’eseguire delle prospezioni subacquee eseguite con telecamera a circuito chiuso, dispersi lungo la linea costiera delle località “Gradinate” e “Seggiola”, è stata identificata “tra i 16 e i 40 metri di profondità, un area circoscritta caratterizzata dalla presenza di ben 97 blocchi lapidei, prevalentemente squadrati, giacenti sul fondale sia  gruppi che isolati e che spesso mostrano i segni degli attrezzi impiegati per l’estrazione”.

Sempre secondo gli autori dello studio – inoltre – per quanto riguarda la formazione del giacimento è da escludere “sia il trascinamento a mare dei manufatti dal pian di cava considerata la loro distanza dalla costa (500 metri) sia la loro dispersione in un ampio intervallo batimetrico. Ne è giustificata l’ipotesi che l’ipotesi che questi reperti provengano dal naufragio di una imbarcazione sia per la dispersione dei reperti e per il loro numero (diverse centinaia) mentre è probabile che tale giacimento si “sia formato nel corso dell’attività di trasporto a mezzo zattere dalla cava fino al punto di carico su navi di maggiori dimensioni come evidenziato per altre aree estrattive”.

La datazione della cava rimane ancora incerta per gli autori dello studio – precisa ancora il report de tre studiosi –  ma è “possibile ipotizzare che anche la cava di pizzo calabro sia servita a fornire materiale lapideo impiegato nell’edilizia urbana che per quella del territorio” poiché dal sito in questione “sono stati estratti migliaia di metri cubi di terra  con centinaia di blocchi e di semilavorati finiti in mare e proprio la grande quantità di materiale sommerso disperso lungo il percorso” dimostra per gli studiosi “la chiara volontà di perseverare nell’attività estrattiva e di trasporto del materiale nonostante le notevoli perdite di prodotto”.

E’ una storia affascinante questa di cui è al corrente anche l’amministrazione comunale napitina guidata dal Sindaco Gianluca Callipo e l’assessore alla cultura Cristina Mazzei.

Spetterà adesso a loro approfondire la questione, da un lato interessando della cosa, il sovrintendente ai beni archeologici Fabrizio Sudano e dall’altro, sia studiando al meglio le carte nautiche e terrestri relative al tratto di costa interessato e possibilmente ottenere tutta la documentazione completa – sia documentale che fotografica – dell’area della cava. Il tutto, al fine di verificare se ci siano le condizioni per predisporre poi – in futuro- un progetto finalizzato alla valorizzazione e alla fruizione del sito in questione.

Questa ricerca – preceduta da una ricognizione effettuata nel 1989, ha avuto inizio nel 1999  fino al 2002 mentre il rilievo della cava è stato fatto nel 1999 in collaborazione con l’Archeoclub di Vibo Valentia e con l’Associazione Mare nostrum – Archeoclub d’Italia.

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