Il nuovo libro di Olivier Roy, “Il Jihad e la morte” prova ad analizzare la mentalità dei terroristi, la distruzione del proprio corpo e di quello altrui che è e rimane, per i jihadisti, parte di un progetto distruttivo totale.
OLIVIER ROY
«Noi amiamo la morte come voi amate la vita». La frase, attribuita a Bin Laden, è stata ripresa da vari islamisti omicidi e suicidi, tra cui il capo degli attentatori di Londra nel 2005, Mohammad Sidique Khan, e Mohammed Merah, il terrorista che uccise tre poliziotti e quattro ebrei a Tolosa e Montauban nel 2012.
Senza comprendere il loro amore per la morte, la loro tensione verso la morte, non è possibile capire l’ universo dei jihadisti e il significato peculiare della violenza islamica contemporanea. Se infatti il tema della guerra santa, del jihad appunto, è ricorrente nella storia dell’ islam, l’ associazione del terrorismo e del jihadismo con la ricerca deliberata della morte è del tutto nuova.
OLIVIER ROY – IL JIHAD E LA MORTE
È questa la tesi del nuovo libro di Olivier Roy, annunciata fin dal titolo, Il jihad e la morte . Il volume è uscito in ottobre in Francia ( Le Djihad et la mort , Seuil) e sarà pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 2017.
Il politologo francese, da anni all’ Istituto universitario europeo di Fiesole, sviluppa la sua teoria a partire dall’ osservazione minuta di chi uccide, e si uccide, in nome di Allah. Da Khaled Kelkal nel 1995 al Bataclan venti anni dopo e agli attentati successivi, i terroristi si fanno esplodere, o uccidere dalla polizia, senza cercare di fuggire e, precisa Roy, «senza che la loro morte sia necessaria alla realizzazione dell’ azione». La morte non è un mezzo, ma il fine stesso.
La regola, dichiara David Vallat, il convertito che arma Kelkal, «è di non farsi mai prendere vivi. Quando Kelkal vede i gendarmi sa che sta per morire. Vuole morire». La distruzione del corpo proprio e altrui è per i jihadisti parte di un progetto distruttivo totale cui appartengono la furia iconoclasta contro statue e libri e la cancellazione della memoria dei padri che hanno tradito il vero islam. La dimensione nichilista è centrale. Ciò che affascina e attrae la nuova recluta, scrive Olivier Roy, è «la rivolta pura, e non la costruzione di un’utopia». La violenza è non una opzione tra altre, ma la norma, la scelta; perciò è «violenza no future».
BIN LADEN
Per cogliere il fenomeno, l’autore francese sceglie un approccio trasversale: cerca connessioni e analogie con altre forme di violenza contemporanea e di progetti rivoluzionari, guarda alla cultura giovanile, segue le traiettorie dell’islam globale, studia la religiosità, non solo musulmana, sopravvissuta alla secolarizzazione.
Va osservato da tale prospettiva il profilo del jihadista di oggi. Per lo più è di seconda generazione, o convertito; rifiuta l’ islam annacquato e perdente della tradizione familiare e nazionale; è privo di cultura dell’ islam, spesso ha scarso accesso all’ arabo, il poco che sa viene in gran parte dalla propaganda in Rete.
JIHADISTI BAMBINI NEI VIDEO PROPAGANDA ISIS 1
Intende vendicare le vittime islamiche, ma non è egli stesso una vittima; si erge a difensore delle masse sfruttate, ma la sua posizione sociale è relativamente agiata, come nel caso dei cinque attentatori di Dacca. Pensa a una ummah globale fuori del tempo e dello spazio, ha poco interesse per i conflitti d’ area, dalla Palestina all’ Afghanistan. Ritiene prossima l’ apocalisse e perciò non si cura dello sviluppo di una società musulmana e non partecipa alle associazioni politiche o caritative.
Frequenta di rado la moschea, non rispetta la norma islamica, la sharia , e non si preoccupa del suo passato di delinquente comune e della vita dissoluta, tra discoteche, alcol e droghe: l’ imminente martirio, comunque, laverà tutto. Si apriranno le porte del paradiso e lui ci entrerà da eroe. Avrà salvato la sua gente, avrà riscattato la sua famiglia, i genitori, la mamma. La guerra, intanto, gli regala il brivido della clandestinità, l’ estetica delle armi e della divisa, la potenza sessuale, la visibilità dei social, la spettacolarizzazione della strage.
Il jihadista che persegue la morte è così sospeso tra due vuoti: quello di un passato ignorato e comunque da cancellare e quello di un prossimo futuro apocalittico simboleggiato da Dabiq, la città siriana dello scontro finale tra «romani» e musulmani, da cui il titolo della rivista in inglese dell’ Isis (movimento che Roy chiama con la sigla araba Daesh).
JIHADISTA ISIS DECAPITA RUSSO CECENO
In quella sospensione, individui e microgruppi vivono a cavallo tra il mondo parallelo della guerra santa e la condizione di giovani moderni in rottura con il mondo e con la tradizione islamica stessa. Le ragazze disobbediscono ai genitori e scelgono la lotta, le coppie formano famiglie mononucleari, il rap coesiste con la musica araba nashid , la moda street e la tenuta salafista si avvicendano, i film violenti americani modellano i gesti; il jihadista di nuova generazione recita la preghiera quando può e va in palestra, mischia il gergo arabo fondamentalista allo slang giovanile.
Famiglie affrante, politici e opinionisti parlano di lavaggio del cervello o di una violenza insita nell’ islam, invano ricacciata indietro e sempre pronta a riemergere. Roy rifiuta entrambe le spiegazioni: critica tanto i vani programmi di deradicalizzazione quanto l’ approccio «verticale» del suo rivale Gilles Kepel, per il quale, questa è la critica di Roy, tutto si spiega con la radicalizzazione dell’ islam. Il jihad, invece, è una scelta. Certo, una scelta che può attrarre lo psicopatico («Chi un tempo si credeva Napoleone», scrive Roy, «oggi si crede Daesh») e tuttavia una scelta vera, che va compresa nei suoi vari registri, e nell’ intento ultimo di far tabula rasa .
JIHADISTA COLPITO DA UN MISSILE
La scelta della morte nel jihad, secondo Olivier Roy, ha tre dimensioni. La prima è quella delle rivolte giovanili, per la quale il jihad può collegarsi alla rivoluzione culturale cinese, che ha inventato la rottura generazionale, e alle violenze di massa del nostro tempo, come i massacri americani stile Columbine e i casi di Breivik e del pilota suicida di Germanwings.
La seconda dimensione è quella delle turbolenze politico-ideologiche dell’ islam fondamentalista, dallo Stato islamico di Isis al salafismo, di cui tuttavia Roy sottolinea la differenza con l’ islam dei jihadisti e nega il rapporto diretto di causa-effetto con la violenza. La terza dimensione è quella del fondamentalismo contemporaneo trasversale alle varie fedi, in particolare quella rottura dei nuovi credenti con la propria storia e il proprio patrimonio culturale cui Roy ha dedicato il saggio La santa ignoranza (Feltrinelli, 2009).
Collocata in questo orizzonte, la scelta del jihad è certo strettamente collegata al percorso dei musulmani contemporanei, ma non è configurabile come il prodotto del loro disagio storico-politico, della loro non integrazione, di una pretesa essenza violenta dell’ islam. La morte nel jihad non è il risultato della radicalizzazione dell’ islam, ma al contrario, secondo Roy, dell’ islamizzazione della radicalità. I jihadisti sono individui in rivolta che «prima scelgono la radicalità e poi si iscrivono nel paradigma islamico».
Essi, peraltro, sognano la sollevazione musulmana su grande scala, ma restano numericamente e socialmente marginali, odiano i crociati, ma ammazzano anzitutto fratelli di fede tanto in terra d’ islam quanto sul lungomare di Nizza, dove un terzo delle vittime sono d’ origine musulmana; per non parlare del loro sfasamento rispetto al groviglio di interessi di cui ha beneficiato l’ Isis, allo scontro tra sunniti e sciiti e a società islamiche sempre più secolarizzate. Se anche l’ Isis fosse sconfitto e sparisse, sintetizza Roy, non sparirebbe la seduzione nichilista per la quale questi giovani abbracciano il jihad e la morte.
DONNE JIHADISTE
Fonte:Marco Ventura
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