Pino Neri traccia il profilo dello scrittore palmese Leonida Repaci, autore della “Storia dei fratelli Rupe” e fondatore di uno dei premi letterari più prestigiosi, esaltandone la passione per la Calabria, terra che spinge lontano i suoi figli più illustri perchè incapace di offrire loro <le condizioni più favorevoli per affermarsi>.
Nel messaggio per Cilea, letto da Carlo d’Angelo al teatro Sciarrone di Palmi, la sera del 21 novembre 1970, Leonida Repaci scriveva agli amici: <Siamo stanchi di dovere trovare fuori della Calabria pane e gloria. La Calabria deve essere messa in condizione di assicurare questo pane e questa gloria ai suoi figli. E’ un fatto che degli scrittori ed artisti di maggiore nome nati in Calabria, Alvaro, Perri, Guerrisi, Monteleone, Rito, ed anche dei più giovani talenti come Costabile, Selvaggi, Altomonte, De Angelis, Gironda, Strati, non uno di essi ha trovato nella terra natale le condizioni favorevoli per affermasi. Se uno ci resta è solo per morirci, e questo è il caso di Lorenzo Calogero. Resta una Calabria depressa dal lato culturale. Se quest’ultima carenza è meno sentita dalle popolazioni premute da più gravi necessità, essa è però quella che riassume le altre lacune, il nostro ritardo storico, insomma>. Repaci esprime cosi’ il senso di vuoto, della solitudine culturale che questa terra dà agli intellettuali. Non sono bastate le leggi degli anni ’50, la legge Sila, le provvidenze per il Mezzogiorno a fare mutare le condizioni geopolitiche di un popolo che ha sempre cercato la propria identità culturale, lo spessore creativo, la luce attraverso le folgorazioni degli artisti, degli intellettuali, ma sempre “ popolo”, con la sua storia, con il suo limite storico.
Repaci, negli anni tormentati del risveglio di questo popolo calabrese scrive la “Passione dei Rupe” (1931/1937), e uno dei più grandi critici del secolo, Francesco Flora, definisce il temperamento di Repaci “una straordinaria velocità di estro”, paragonando il ciclo dei “Rupe” alle vetrate di una cattedrale. La cattedrale è sontuosa, solenne, ha qualcosa di maestoso; e Granzotto, nel suo indimenticabile discorso commemorativo di Repaci dice che la velocità dell’estro, dell’immaginazione, è un modo bruciante di dare al tempio i colori della vita. La critica deve limitarsi a sottolineare i segni dell’approvazione e quelli della disapprovazione. <Bastava dire un eh ! d’entusiasmo, o un oh! di condanna. Bene, io leggendo Repaci appena varcata la soglia dei vent’anni non facevo che ripetere eh! eh! Eh! >. Repaci propone a Granzotto di far parte della giuria del premio Viareggio. E’ un premio importante che vede raccolta l’intellighentia italiana di quegli anni, i clan, le isole letterarie, i gruppi, gli intellettuali, “i cani sciolti della letteratura”. Sono i giovani autori che hanno nel sangue anche la grande lezione del realismo letterario, anche se negli anni ’60 tale realismo comincia a trasformarsi in populismo. <La sollecitazione parziale e particolare non è più pretesto sufficiente ad una polemica etico-ideale. Il discorso dello scrittore resta chiuso dentro condizionamenti storici ed ambientali ben precisi>.
<Ne deriva – scrive Asor Rosa – una esagerata accentuazione degli elementi locali: lo scrupolo sociologico è sempre ad un passo solo dal folklore puro e semplice; l’amore per certi caratteri specifici di un settore delimitato del popolo italiano diviene adesione involontaria, ma evidentissima, ad un complesso di valori arcaici, pre-storici che quel popolo coltiva. Si lamentano la miseria, l’arretratezza, la sofferenza materiale di cui il popolo soffre>. Repaci, col ciclo dei “Rupe”, accogliendo 68 anni di storia e parlando della “Jenia dei Rupe” arriva al romanzo moderno, senza confini di spazio, di tempo. E’ paritetico letterariamente al “Guerra e pace” di Tolstoj, o alla storia zoliana del ciclo dei Rougon-Macquart, racconta la disfatta di Caporetto, la Rivoluzione d’ottobre, la spagnola, l’occupazione delle fabbriche, la morte di Lenin, il trionfo del nazismo in Germania, la Resistenza, il dopoguerra, il Vietnam di Ho Chi Min, la Cuba del Che Guevara, la destalinizzazione, la primavera di Praga, le lotte contadine in Calabria. L’itinerario dei Rupe si svolge nella storia e Repaci la storia la fa anche con i premi letterari, organizzatore e presidente del Viareggio “fermissima pietra miliare di indirizzo e di guida della letteratura italiana del Novecento” (Crupi), convoglia qui gli scrittori, i poeti, i divi del momento. Il romanzo è allora uno spettacolo, le storie d’amore e di dolore nella Versilia assumono toni ampi, dànno originalità alla letteratura.
Il premio Viareggio degli anno Sessanta, mitici, ricchi di vivacità intellettiva, conosce un parterre di intellettuali, un parterre de rois veramente unico: Ungaretti vi arriva con un sigaro in bocca, col suo vestito a righe, biascicando l’aria stanca e malata, e dietro gli occhi ha ancora il velo del dolore per la morte del figlio Antonietto; Montale, alto, con la sua voce da baritono, amante della musica classica, curioso da indagare e osservare per poi riferire negli elzeviri del Corriere della Sera, da poco ha pubblicato “La bufera” (1956) e i suoi amici, complimentandolo, stringendosi attorno,f anno a gara, con l’ironia dei poeti a ripetere, quasi battere di campana, i versi: “Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio non era fuga, l’umiltà non era vile, il tenue bagliore strofinato, laggiù non era quello di un fiammifero. <Qualcuno esalta, vedendolo, le “ magnifiche sorti progressive” agitando in senso poeticissimo dei girasoli, in segno di saluto. Caproni, livornese, da poco ha dato alle stampe “Il seme del piangere” (1959), finissimo traduttore di Proust e di Frènand, violinista, incontra al Viareggio i suoi amici, dichiarando “Non avrei mai scritto versi senza la mia vita concreta di uomo>.
Viareggio non è Firenze. Qui, un mare aperto, ventoso, la bellezza dei ristorantini, del lungomare, di fiori, di palme, un’estate che esplode alla Bussola e che richiama un’umanità effervescente. Li’ un poetico lungarno, coi lumi smagriti e i poeti che passeggiano per ritrovarvi antichi profumi di poesia. Repaci sceglie il mare, lui palmese, col mare dentro e col raggiare di un sole sul sant’Elia che anima la mente dei calabresi, richiama suoi amici scrittori, Piovene, lo scrittore difficile, intellettualissimo, introverso, Bonaventura Tecchi, Bevilacqua, giovane, in gamba, ha già descritto la sua Parma, i cilei, le donne, la famosa “califfa” , le slandre della Bassa del Po,l e fiumane di nebbia, le prime lotte operaie, ama il Viareggio perché è un momento di arte pura. Critici come De Benedetti, Roberto Longhi, musicisti come Petrassi, scrittori come Gianna Manzini (“Forte come un leone”, “Allegro con disperazione” ) e poi Bertolucci, De Libero, Penna, Sinisgalli. Il grande Moravia, col suo vestito bianco a righe e il suo “clan”: Dacia Maraini, Pier Paolo Pasolini, Enzo Siciliano. A Viareggio si folleggia. Letteratura, arte, trasgressività, musica, canzoni, serate estive. Pure Repaci è vestito di bianco, pavesato di giovinezza, con i suoi bianchi capelli al vento, da più di trent’anni alla guida della letteratura. Soldati, Santucci, Pier Antonio Quarantotti Gambini ( “L’onda dell’incrociatore”), Santucci (“ Il veloci fero”), Ferruccio Parazzoli, giovanissimo “Galleggia come barca abbandonata” , Pratolini, già famoso per le “Cronache dei poveri amanti” e Mario Tobino, toscanacci, con la grande voglia di fare rinverdire i rami secchi della letteratura. L’alba estiva reca la sua luce sulla strada dove anche i gatti hanno trovato riposo e il gallo ha buttato giù dal letto il nostro Repaci che, in piedi, rinfrescatosi da poco col sapone dagli aromi calabresi, scalda l’acqua e il caffèlatte, mentre Albertina lo protegge dai suoi vizi di carattere, lo biasima e lo loda, lo sprona e combatte con lui con unico fascio di energie,quello che tiene uniti gli esseri che si amano nei venti favorevoli e nelle tempeste, la grande forza che spinge la vita. In un bassorilievo Albertina tiene la mano sulla spalla di Leonida.
Scrive Granzotto: <Come affettuosa guida e come docile seguace. Se dovessi riassumere da quali radici Repaci ha succhiato le passioni scatenate delle sue quattromila pagine di scrittura ancora schiumate, metterei in fila la Calabria, la fede nella libertà, l’amore di Albertina. Sono le lave del suo vulcano>. Giù per il lungomare viareggino, incontri, scontri con i letterati suoi amici, nemici e poi nella trattoria, dove mugola di soddisfazione, perché è uno di quei locali dove ancora si mostra il mantice che tira il fuoco e scoppietta a mò di fondo della mascalcia, vasta e sfogata come un androne di palazzo. Il pomeriggio, ecco i libri, gli autori, selezione, nervi,risate, il caffè, le sigarette. Ci sono loro, le fanciulle letterate, con gli occhi chiari di colomba, mattiniere, hanno messo le sveglie fatte per suonare – direbbe Pratolini-, sveglie urlanti, suoni di campanelle, di tranvai, che rimuoverebbero uno spazzino dal sonno di tartaruga. Lo “stormo” si muove. Repaci ha l’antica scaramanzia dei calabresi, sa scegliere, sa pilotare,e si finisce tardi,quando il mare è umido di luna,quando i barrocciai di Pontassieve e della Rufina, dell’Impruneta, di Calenzano, di Firenze, della piazza grande nella Viareggio notturna, portano la mano al berretto e vanno via, lasciando Leonida affaticato e furibondo, con una carica di indignazione e accoramento. “Lui” si vede solo, come motivo poetico della Toscana, ma in realtà sono i mitici anni Sessanta, gli tocca una macchina dei suoi amici,la seicento che scende alla fermata del viale e lo porta su, tra il verde dei platani, tra lo zampillare delle vasche, nei giardini, sotto le ascelle di una città addormentata che serve a fare sbollire il suo carattere furente e protervo. Ha la solita giacca d’alpagà grigia, il cappello buttato sopra la fronte, la barba trascurata. Sono passati gli anni pure per lui,le rughe attorno agli occhi gli fanno raggera, i capelli sono più bianchi. Il suo è un mestiere di letterato, antico, nuovo, ma sempre difficile da fare, da capire.
E’ un calabrese purosangue, e mentre Mina e Ornella Vanoni urlano le loro canzoni nella Bussola, Repaci intona i suoi Poemetti sulla Calabria, allungando sguardi alla spaziosa cerchia dei colli toscani, l’estrema che chiude in sé la dantesca Firenze. Tra mezzogiorno e oriente, li’ è anche disegnata la sua Calabria, quella dei Rupe, che gli sta sempre nel cuore, anche quando ordina,s eduto al tavolo del bar antistante la Bussola, caffè e paste dolci, o quando bacia col sapore della cioccolata sulle gote i suoi amici. La Calabria, con i monti aspri, con i solicelli invernali calati sul mare di Palmi, con le stradine pavesate di manifesti di lutto, con i fiori del suo sant’Elia, è il suo grande abbraccio, il respiro, la vita nella toscanaccia Viareggio. Repaci esplorava, Repaci convinceva, Repaci comunicava, esplodeva, s’infuriava.
A mezzogiorno, col costume rosso sangue, si tuffava nelle acque della Versilia e nuotava gagliardamente; alle sedici radunava la giuria e la induceva a decidere prima di sera a scegliere i nomi giusti per la gloria del premio, che non fu mai attribuito ai soliti illustri sconosciuti; e la notte, tutti alla Capannina o alla Bussola, luoghi di spassi e di conversari con Mina che si sedeva sulle ginocchia di Ungaretti e si faceva declamare le più belle poesie del Novecento come se ascoltasse canzoni d’amore, mentre uno sciame di giornalisti vagava a caccia di indiscrezioni, di giovani scrittori alla ricerca del loro futuro, di belle donne sedotte dal fascino della cultura, dell’innovazione, delle creazioni dello spirito. Donne e letteratura sono sempre andate a braccetto. Repaci dice di avere fondato il Premio Viareggio all’ inizio degli anni Trenta perché vedeva sulla spiaggia nugoli di belle donne e non sapeva come attirarle,come rendersi interessante ai loro vezzi. Non aveva denaro, né automobili, non poteva offrire nulla, ce
rcava di conquistarle con la letteratura, leggendo le sue liriche, aprendo simposi, parlando della sua terra, di Palmi, che amò sempre chiamare “Samura”. Porta nel sangue il carattere forte e aspro del calabrese che traduce nell’epopea dei “Rupe”, la grande saga che si apre col terremoto del 1908 e si chiude con le drammatiche rappresentazioni dell’ultimo conflitto mondiale; porta nel sangue il cielo del Sant’Elia, il rimpianto dei piccoli paesi della sua Calabria, laddove è ancora possibile incontrare la “Rosa cogli oliva” estasiata dal comizio di Togliatti, le contadine occhi di sole, con la grazia, il pudore di chi si inchina dinanzi al signore o all’intellettuale e l’arroganza degli uomini che hanno dato tutto se stessi alla terra, vita, lavoro, casa, figli. La Calabria del sangue e della passione, della rosa e del coltello, per lui che conobbe Gramsci e Gobetti, a Torino, e che conobbe il carcere a Palmi, come sovversivo, a Viareggio, tra una schiera di intellettuali cialtroni che andavano domati verso la vera repubblica delle lettere, volle fare l’innesto del mare toscano sugli ulivi calabresi, sui tronchi secolari che hanno visto antiche storie d’emigrazione e di morte. L’innesto è stato splendido, nel bagaglio del Viareggio il grande vecchio della letteratura porta i suoi poemetti, i suoi sogni, porta i tre poeti della Calabria (Calogero, Costabile, Zappone), porta la sua gloria e la sua opera che lui stesso descrive: <Quell’eterna aquila di pietra che si libera solitaria nel cielo greco della Calabria, quel tanto di gigantesco, di indomabile, di solenne,di impervio, di corrucciato, d’antico, di sofferto che è nel paesaggio fisico e morale dei calabresi>.
Il Viareggio ha elevato le lettere degli anni ’50 e ’60, anche qui, come alle Giubbe Rosse di Firenze, il famoso caffè dove si riunivano i letteratissimi intellettuali, tra i caffè illuminati di notte, vi discutevano e vi lavoravano gli scrittori, avendo i loro svaghi innocenti o meno. Luoghi di luce, di orizzonti panoramici, qui arrivano Montale e Ungaretti, i poeti del viaggio segreto della nostra poesia dopo D’annunzio. E su tutti, come nella vicina Firenze, aleggia l’ombra di Campana che appare un giorno a vendere il suo libro, strappandone le pagine di cui il compratore gli sembri indegno. Campana che nella trattoria “Il Sole”, a un pranzo, all’improvviso sul rovescio del suo piatto s’è messo a scrivere. E poi Luzi, Sinisgalli, Gatto, Piovene, Penna, Parronchi, Vigorelli, Ulivi, in un devoto dialogo con la poesia non ancora trentenni, e assai lontani dal mezzo del cammin della vita, assieme a scultori e pittori, nel caldo dell’estate versiliana, nella romita selciata segreta fra ville e ulivi e muri graffiti, dalla via san Leonardo, dove è esposta l’europea pittura terribile di Rosai, che tra Arcetri, San Miniato, il Belvedere e la porta San Giorgio, richiama ammiratori e specialisti, questo gruppo costituisce il nucleo del Viareggio, l’armonia dei giovani geniali, di intelligenti italiani eredi del grande Gabriele, guidati da Leonida Repaci, il grande e rude calabrese, il sanguigno poeta dei “Rupe”.
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