Ottaviano Capece fu un prelato cattolico che servì la Chiesa cattolica come vescovo di Nicotera (1582-1619), nominato durante il pontificato di Papa Gregorio XIII.
Giunto in città, dopo il trasferimento ad Andria di monsignor Resta, vedendo le ristrettezze in cui versava il sacerdozio nicoterese aumentò le rendite del Capitolo cattedrale. Sentendo poi il bisogno di riconfermare la supremazia del clero sui poteri civili e legare con maggiori vincoli morali la chiesa locale al suo Pastore dettò diligenti riforme nella disciplina ecclesiastica celebrando ben dieci sinodi diocesani dando vita ad un codice disciplinare di norme che ressero la vita della diocesi fino alla fine dell’800.
Nel primo sinodo del 14 febbraio 1583, demandò all’Arcidiacono la cura delle anime, mentre nel secondo – del 24 luglio 1588 – ribadì le pene contro i chierici che portavano armiproibisce di piangere i morti in chiesa e il “reputo” specie di nenia che allora praticavano le prefiche nonchè diverse superstizioni.
Uomo molto dotto non trascurò di portare a Nicotera lo studio delle arti liberali e riprese a riedificare il Duomo. Fu sotto il suo mandato che iniziò inoltre la costruzione del complesso conventuale di San Francesco di Paola e della SS. Annunziata con la cappella di San Giuseppe. Nel terzo sinodo da lui indetto inoltre – 2 aprile 1592 – istituì scuole di grammatica e di canto presso il seminario cittadino.
Nel quarto sinodo – tenutosi il 24 aprile 1595 – provvide alla decime della chiesa e impose ai parrocchiani di congregarsi col vescovo per i bisogni spirituali della comunità, quattro volte l’anno nei giorni del 2 novembre, 3 febbraio, 1 maggio e 4 agosto di ogni anno.
Geloso delle prerogative ecclesiastiche, ultimati i lavori del Duomo si oppose al sindaco Marcello Tranfo che voleva apporrre sul sacro edificio lo stemma dell’Università di Nicotera e durante il sesto sinodo diocesano – del 24 marzo 1598 – commina la scomunica contro chi occupasse i beni ecclesiastici e contro i chierici e i diacono selvatici detti Romiti. Sventata la congiura anti-spagnola del Campanella, il Capece, per evitare che taluni si sottraessero alla giustizia rifugiandosi nei conventi indisse il settimo sinodo del suo magistero – 4 maggio 1601 – restringendo il diritto di asilo nei conventi di san Francesco e in quello detto della Nunziatella sito sul territorio dell’attuale Nicotera marina, mentre nell’ottavo sinodo, ristabilì il culto delle feste designate.
Negli anni seguenti, la città venne scossa dalle lotte tra le fazioni e si verificò l’episodio dell’assedio del convento dei Domenicani da parte del vicerè Don Grazia di Toledo, convento nel quale si erano asseragliati i banditi Soldano, Romano e Cesareo. Il Capece intervenendo in quel frangente come mediatore inviò il Vicario generale a parlare con i congiurati che però lo insultatorono. Il Vescovo, appresa la notizia – il 19 dicembre 1602 – affisse in Porta Grande – ad sonum campanae – i cedoloni di scomunica contro i violatori delle libertà e immunità ecclesiastica. I rei vennero processati e costretti a pagare un ammenda con la quale il vescovo acquistò il predio di Madamma Diana sopra cui istituì i benefici di san Biagio e fondò la cappellania di San Gennaro. Dopo di ciò inoltre, sequestrò le rendite ai Certosini della marina perchè obliavano la celebrazione delle messe. Proibì inoltre il restauro della chiesetta di S. maria del Fullà, sita in luogo boscoso, con l’intento di togliere un possibile rifugio ai banditi e ai malfattori.
Offrì in quel periodo al papa Clemente VIII, impegnato nel recupero del ferrarese ai domini della chiesa, la somma di duemila ducati cosa che li procurò un attestato di pubblica stima del pontefice. Sempre con intento moralizzatore, celebrò poi, il nono sinodo dioecsano – il 2 ottobre 1608 – comminando la scomunica contro falsari ed editori di libelli proibiti, e ultimato il Duomo, con solenne celebrazione, tenutasi in data 2 luglio 1608, lo dedicava alla Vergine Assunta. Ampliò poi anche il palazzo vescovile.
La sua popolarità presso il popolo gli attrasse però l’imicizia di molti unita alla disapprovazione verso le multe e le condanne inflitte che indussero alcuni ragguardevoli cittadini a trasferire altroveil loro domicilio. Fu denunciato quindi presso la Santa Congregazione e accusato di essere facile all’ira, prepotente, per aver dato il titolo di maginifico a cittadini immeritevoli e persino di aver fomentato ad arte dei delitti per poi trarre denaro dalle condanne. Sentendosi offeso nella sua dignità lasciò quindi la città, affidando al Pinto la cura della diocesi e si ritirò a Napoli dove però venne raggiunto da ulteriori accuse. Minato nel fisico e nello spirito da queste accuse, passò a miglior vita pochi anni dopo nel 1619. Gli successe lo stesso Monsignor Pinto che avrebe retto la diocesi fino al 1644 e che come lui, si sarebbe rivelato un fermo custode delle prerogative della chiesa locale.