Ventiquattro pagine per confermare lo scioglimento del consiglio comunale e stroncare, almeno per il momento, le speranze del sindaco Pino Morello di risalire le scale del Palazzo e riprendere in mano le sorti del Comune. Ventiquattro pagine in cui i giudici della prima sezione del Tar Lazio danno la sensazione di faticare a trovare gli elementi <concreti, univoci e rilevanti> per dimostrare <collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata> da parte degli amministratori ovvero <forme di condizionamento degli stessi> tali da compromettere il buon andamento delle attività di gestione dell’ente. Il Tribunale romano fa tutta una serie di passaggi mirati a spiegare nei dettagli che lo scioglimento del Consiglio per infiltrazioni mafiose non è <di tipo sanzionatorio ma preventivo> per cui bastano anche pochi <elementi indizianti> per consentire l’individuazione della sussistenza <di un rapporto inquinante> tra Comune e criminalità organizzata. E non sono necessarie più situazioni sospette, ma ne basta anche una sola. Il Tar avvia, quindi, il suo “racconto” infarcendolo di verbi al condizionale e di espressioni quali <tali rilievi in realtà non sarebbero necessariamente significativi>, <non è chiaro però>, <non sono di agevole decifrazione>, <il modesto importo degli affidamenti non imponeva la selezione con procedura ad evidenza pubblica>, <non si può presumere che l’assenza di procedure ad evidenza pubblica adottata sistematicamente possa essere stata fatta in funzione di agevolare alcuni imprenditori vicini alle cosche> e altro ancora.
In altre parole, la relazione presentata dalla commissione d’accesso sembrerebbe in più passaggi non aiutare il lavoro dei giudici che, comunque, vanno alla ricerca di situazioni delicate trovandole in episodi che il sindaco Morello e la sua maggioranza hanno sempre letto in chiave diversa. Alla resa dei conti <quanto sin qui esposto – precisa il Tar – mette in evidenza che, effettivamente, in alcuni settori l’attività e/o l’inattività dell’ Amministrazione è servita per avvantaggiare imprese o famiglie in relazione alle quali sussistono concreti elementi per affermare che sono vicini alla locale cosca di “‘ndrangheta” facente capo alla famiglia M.>. In ogni caso, pur sottolineando che <nessuno, tra gli amministratori ed i dipendenti, risulta essere implicato in procedimenti penali che abbiano ad oggetto indagini per associazione a delinquere di stampo mafioso>, i giudici arrivano alla conclusione che <per quanto scarni siano gli elementi a disposizione, non si può sottacere che, comunque, sono riscontrabili alcune situazioni di asservimento del Comune agli interessi della criminalità organizzata>. Conseguenziale il rigetto del ricorso. In merito, però, forti perplessità vengono manifestate anche dall’avv. Oreste Morcavallo, legale di fiducia, oltre che di Pino Morello, anche dei consiglieri Faustino Antonio Galasso, Giacomo Legname, Rosanna Solano, Costantino Luzza, Federico De Paoli e Domenica Gurzì. <Una sentenza – sostiene – basata su elementi infondati, contraddittori, del tutto generici e mai rilevanti. Adesso valuteremo il tutto, ma il ricorso al Consiglio di Stato appare inevitabile>. L’attenzione viene concentrata soprattutto sul capoverso 21.5 della sentenza. Nello stesso viene chiamata in causa una consigliera di minoranza che <ha vari rapporti di parentela stretta con soggetti ritenuti affiliati al “clan Africo”, è figlia di un ex sindaco che aveva frequentazioni con la famiglia M., ed il di lei figlio risulta coinvolto in un appalto per la realizzazione di una importante viabilità, per il quale avrebbe subito condizionamenti da parte della cosca medesima>.
Per di più <la consigliera – si legge ancora nel provvedimento del Tar Lazio – ha precedenti per atti persecutori, violenza privata, violazione di domicilio, ed è attualmente indagata per falso in relazione ad una delibera a suo tempo da lei firmata in qualità di assessore, nel corso di una precedente amministrazione, con la quale era stato assunto il responsabile dell’Ufficio ragioneria>. La verità raccontata dalla commissione d’accesso sembrerebbe davvero cozzare contro quella dei fatti. La <consigliera di minoranza> in realtà era assessore nella Giunta Morello e non ha nessun precedente penale. I fatti raccontati, con ogni probabilità, sono da ascrivere ad altra persona. Comprensibile, quindi, lo sfogo del “Che Guevara” di casa nostra. <Questa è la giustizia di tempi bui – afferma – che criminalizza chi lotta la criminalità a viso aperto da una vita. Si è voluto con lucida determinazione mettere un marchio infamante su un paese di grandi tradizioni democratiche, su una popolazione che ha sempre rifiutato di convivere con la mafia. La storia – aggiunge – farà quello che non ha fatto la giustizia e restituirà l’onore a questa comunità e alla sua amministrazione che ha operato con trasparenza e nella legalità per il bene pubblico>. Per Morello la sentenza romana <è la conclusione di un teorema secondo cui l’amministrazione di un comune come Limbadi, dove ha origine una potente consorteria mafiosa, deve essere naturalmente condizionata dalla stessa. La gente di Limbadi e non solo di Limbadi sa come stanno realmente le cose>.
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