Il 20 novembre del 1950 moriva Francesco Cilea. A tale anniversario (70°) l’Associazione Culturale Anassilaos ha dedicato un incontro in remoto e un video, disponibile sul sito Facebook del Sodalizio e su You Tube, curato da Giacomo Marcianò, con materiale documentale e fotografico di Giuseppe Diaco, collezionista di documenti e testi cileani. Il Maestro nacque a Palmi il 23 luglio 1866. Fin da bambino fu attratto dalla musica. “Non riuscivo a rimanere fermo se udivo in lontananza sonare la banda in marcia, o se era giunta l’ora di andare ad udire i concerti in Villa, il giovedì e la domenica” scrive nei Ricordi. Allorquando la madre fu costretta ad allontanarsi da casa “colta da alienazione mentale” egli, insieme al fratello Michele, fu rinchiuso in Convitto a Napoli. Qui dimostrò una precoce attitudine musicale al punto che il musicista Francesco Florimo consigliò il padre di indirizzarlo allo studio della musica. All’età di 13 anni fu dunque iscritto al Collegio di musica di San Pietro a Majella a Napoli. Negli anni di Conservatorio diresse l’orchestra ed i cori in tutti i saggi annuali e nel 1887 una sua Suite per orchestra che gli valse la medaglia d’oro del Ministero della Pubblica Istruzione. Al 1886 risale la sua prima opera, Gina, un semplice esperimento giovanile, su libretto di Enrico Golisciani, dallo stesso Cilea concertata, diretta ed eseguita il 9 febbraio del 1889. L’incontro con Edoardo Sonzogno diede una svolta alla sua attività musicale. L’editore gli propose di musicare il libretto della Tilda di Angelo Zanardini che realizzata appena in un anno venne rappresentata al Teatro Pagliano di Firenze il 7 aprile del 1892. L’opera fu anche rappresentata a Reggio Calabria e a Palmi per l’inaugurazione del Teatro Manfroce. Di seguito egli accolse la proposta di musicare l’Arlesiana di Alphonse Daudet, su libretto di Leopoldo Marenco, già peraltro musicata da Georges Bizet. Trasferitosi a Roma, “in una placida serata proruppero spontanee dal mio cuore le nostalgiche note del Lamento di Federico”. L’opera, rappresentata il 27 novembre del 1897 al Teatro Lirico di Milano, con un giovane Enrico Caruso nella parte di Federico, riportò un grande successo anche se l’Editore, rilevate in essa “delle lungaggini che reclamavano tagli senza risparmio” chiese al Maestro di rivederla, cosa che egli accettò di fare sia pure a malincuore. Qualche tempo dopo Cilea si accinse a musicare, su libretto di Arturo Colautti, l’ Adriana Lecouvreur dal dramma Adrienne Lecouvreur di Eugene Scribe e Ernest Legouvè. L’opera, andata in scena la sera del 6 novembre 1902 sempre al lirico di Milano, riportò un enorme successo. Alla ricerca di un nuovo libretto il Maestro chiese a D’Annunzio di poter musicare la “Francesca da Rimini”. Le trattative non ebbero buon esito, come scrive lo stesso Maestro, perché l’editore Sonzogno “trovò gravose, per la Casa Editrice, le pretese finanziarie del poeta”. Scelse allora il libretto Gloria di Arturo Colautti. Il dramma, diretto da Arturo Toscanini, fu rappresentato alla Scala il 15 aprile 1907, riportando un grande successo. Gloria è l’ultima opera lirica del Maestro di Palmi. Nel 1913 egli compose ancora un poema sinfonico-corale dedicato al centenario della nascita di Giuseppe Verdi dopo di ché la sua musa tacque. I rapporti con l’editore e i suoi successori diventarono tesi al punto che – scrive Cilea – “Riccardo (Sonzogno) assunta la direzione della vecchia Casa pensò di tagliarmi i viveri a dispetto dei contratti esistenti”. Fu per necessità che partecipò e vinse il concorso di Direttore del Conservatorio Musicale di Palermo per essere, poco tempo dopo, trasferito San Pietro a Majella di Napoli, dove restò fino al 30 settembre del 1935. “…delle mie opere – scrive – mi ero completamente disinteressato e avevo abbandonato ogni relazione con la mia Casa Editrice” ma si dedicò comunque alla revisione dell’Arlesiana e di Gloria curandosi fino alla morte della diffusione delle stesse nei Teatri e presso la radio (EIAR). Una vita la sua ricca di soddisfazioni artistiche ma anche di amarezze dovute alle aspre rivalità con altri artisti (Puccini sostenuto dalla Ricordi); alle incomprensioni con l’Editore Sonzogno al quale rimase sempre fedele e che molto spesso gli richiese modiche delle opere (“menomazioni” egli le chiama) dovute più alla insufficienza dei cantanti o dei direttori d’orchestra che alla qualità musicale; ai tentativi di denigrare la sua opera e di escluderla molto spesso dai Teatri lirici. Quanto alla sua arte egli rivendica una italianità “ammodernata al progresso delle forme e della tecnica, mai soffocata, né deformata” come peraltro attestato da Arlesiana, Adriana e Gloria che definisce “le tre creature della mia fantasia e del mio sognato ideale”.
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