Luigi Einaudi: La Lezione di un Presidente è stato il tema della conversazione del Prof. Antonino Romeo, promossa dall’Associazione Culturale Anassilaos, nel 60° della morte dello statista. In un recente convegno organizzato a Milano per ricordare Luigi Einaudi a sessant’anni dalla morte – ha rilevato il relatore – Mario Monti ha detto che “oggi Einaudi non parla, grida: se fosse qui tra noi avrebbe preoccupazioni che dovremmo fare nostre, perché la fiducia presente per la ripresa del Paese non si trasformi in superficiale compiacimento”. Ricordare, infatti, quel Presidente di una stagione così lontana, non è un atto di formale adeguamento alla suggestione degli anniversari, ma ci consente di recuperare indicazioni utili per leggere anche il nostro problematico presente. Anche oggi, infatti, come al tempo in cui Einaudi fu protagonista della scena politica italiana, c’è un Paese da rimettere in piedi: allora si trattava di superare il trauma di una dittatura ventennale e di una sconfitta rovinosa che aveva lasciato l’Italia in condizioni disastrose, oggi bisogna porre rimedio non solo agli effetti devastanti della pandemia, ma anche ad un lungo periodo di non governo, nel quale le decisioni importanti sono state spesso rinviate, è stata accantonata ogni seria programmazione e la spesa pubblica si è gonfiata oltre misura e non per finanziare investimenti produttivi, ma per rispondere ad interessi settoriali o per favorire calcoli elettoralistici. Inoltre anche oggi, proprio come allora, ci sono cospicui finanziamenti internazionali da utilizzare: allora erano i dollari americani del Piano Marshall, oggi i fondi, ancora più rilevanti, messi a disposizione da un’Europa che ha finalmente capito l’importanza della responsabilità solidale. Ma queste somme sono in gran parte prestiti che, quantunque erogati a condizioni favorevoli, richiedono sempre di essere restituiti e perciò è necessario attivare innanzitutto una cultura di governo operativa, finora largamente deficitaria, e creare strutture che sappiano programmare e gestire la ripresa, selezionando gli obiettivi in ragione della loro ricaduta produttiva. A suo tempo Einaudi, dal 30 maggio 1947 ministro del Bilancio nel quarto governo De Gasperi, il primo senza la partecipazione delle sinistre, intervenne con decisione per arginare l’inflazione galoppante che aveva messo in ginocchio tutti i percettori di reddito fisso, operai salariati, impiegati, pensionati, mentre aveva fatto la fortuna di tanti speculatori che avevano utilizzato il credito facile per accumulare scorte da immettere sul mercato nei momenti più favorevoli. Einaudi intervenne sul cambio della lira rispetto al dollaro, portandolo a livelli più in linea con la realtà, decise una stretta creditizia che tolse ossigeno agli speculatori, per frenare l’aumento della spesa pubblica abolì il prezzo politico del pane e le agevolazioni previste per i consumi primari e, in accordo con il ministro del Commercio estero Cesare Merzagora, introdusse il “franco valuta”, cioè la possibilità che i capitali depositati all’estero venissero utilizzati per importare in Italia le merci di cui c’era drammatico bisogno. Era una cura da cavallo, ma funzionò e in pochi mesi consentì all’economia italiana di ripartire e di porre le basi per quello che fu chiamato il “miracolo economico” degli anni successivi. Insomma, una politica fortemente deflazionistica, che salvaguardò i redditi del ceto medio impiegatizio e dei tanti coltivatori diretti, allargò il campo d’azione della grande industria, in grado di autofinanziarsi, ma mise in crisi la piccola e media impresa, sempre più in difficoltà con il credito bancario, e fece esplodere la disoccupazione nella massa operaia. Furono misure necessarie ed utili sull’immediato, ma mancò la volontà di impostare il processo di crescita su basi nuove e territorialmente più equilibrate, anche se i fondi del Piano Marshall avrebbero consentito di effettuare interventi proprio in questo senso. Si decise, invece, di utilizzarli più per ricostituire le riserve valutarie che per investimenti produttivi, a differenza di quanto avvenne in Francia e in Germania, ed anche per questo il “miracolo” degli anni seguenti accentuò tutte le contraddizioni che si era scelto di non affrontare con sufficiente lucidità. Se la “linea Einaudi”, come la definisce Ugo Ruffolo, fu contestata da economisti del livello di Federico Caffè e Marcello De Cecco, è però certo che la sua lezione si è articolata su molti altri piani, tutti stimolanti e ricchi di indicazioni. Leggendo in particolare le sue “Lezioni di politica sociale” o le sue celebri “Prediche inutili”, troviamo materia su cui riflettere anche oggi, ad esempio quando riflette sul reddito minimo da assicurare a tutti, ma che non deve essere tanto consistente da rendere meno attrattivo il reddito da lavoro; o quando prospetta la necessità di imposte di successione che rendano impossibile a nipoti o pronipoti di fruire di quanto realizzato da antenati lontani, senza che ci sia stato un loro personale impegno ad accrescere il patrimonio; o ancora quando affronta la difficile questione del giusto limite della tassazione, individuato in una misura che consideri solo il “reddito normale”, escludendo la parte destinata al risparmio e al reinvestimento. Di particolare validità sono i suoi richiami all’integrazione europea, sorretta da un’indispensabile forza militare comune, ma fondata su larghe autonomie locali, unica base per una democrazia effettiva. Da qui il suo famoso “Via il Prefetto!”, proprio per indicare nell’assunzione della responsabilità individuale di ogni comunità il fondamento più sicuro della libertà. Da non dimenticare, poi, il suo ammonimento a “conoscere per deliberare”, necessario sempre, ma di stringente attualità in questo tempo in cui la retorica dell’uno vale uno ha affidato la gestione di questioni complesse a tanti dilettanti allo sbaraglio, pieni magari di buone intenzioni, ma si sa che di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno. Un ultimo motivo di interesse per la figura di Einaudi viene dalle vicende che lo portarono al Quirinale l’11 maggio 1948, primo Presidente ad essere eletto dal Parlamento secondo le procedure previste dall’articolo 83 della Carta costituzionale. Dopo la larga vittoria nelle elezioni del 18 aprile, De Gasperi, consapevole della necessità di non stravincere, candidò al Quirinale Carlo Sforza, ministro degli Esteri, esponente dell’area laica e prestigiosa figura dell’antifascismo democratico di matrice mazziniana. Questo disegno fu osteggiato da comunisti e socialisti, che non volevano far passare l’idea che potesse esistere un antifascismo estraneo alla loro area, e trovò l’opposizione della sinistra democristiana che faceva capo a Dossetti, intenzionata a far capire a De Gasperi che era sì il capo del partito e l’artefice della vittoria elettorale, ma che non poteva decidere tutto a suo piacimento. A Sforza mancarono, quindi, i voti nei primi tre scrutini e dovette rimettere in tasca il bel discorso che aveva già preparato per la cerimonia di insediamento. Al quarto scrutinio, con 518 voti su 872 presenti e 871 votanti, fu eletto Luigi Einaudi, individuato come unico possibile punto di confluenza di posizioni ed interessi differenti. Probabilmente un precedente su cui anche i “grandi elettori” del 2022 faranno bene a meditare.
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