Il quotidiano “La Repubblica” questa mattina, attraverso gli scatti del fotografo e giornalista Fabrizio Villa e le parole di Carmine Abate parla degli ultimi carbonai delle Serre.
Nei boschi che circondano la cittadina di Serra San Bruno, il settore della carbonificazione naturale impiega ormai solo qualche decina di persone, ma negli anni passati e soprattutto nel secolo scorso, c’era tutta un’intera economia dietro quest’attività. Una vera e propria “arte” che si apprendeva da piccoli, quando i giovani imparavano già a scegliere il legno adatto alla composizione dei covoni di legna accatastata, ricoperti da terra bagnata (i cosiddetti “scarazzi“), da cui, attraverso un processo di cottura e di disidratazione, poi veniva fuori il carbone.
Il processo aveva inizio con l’accatastamento circolare della legna selezionata che viene disposta dal centro alla periferia, in base alla grandezza, prima i pezzi più grossi per poi finire con quelli più sottili. Dieci giorni di lavoro servivano ai carbonai per innalzare una cupola alta quasi sei metri e larga molto di più, che veniva poi ricoperta da terra bagnata o da paglia. A questo punto i carbonai accendevano il fuoco nel covone, da una fessura praticata nell’apice della cupola stesso il cui camino, scende all’interno dello “scarazzu” fino alla camera di combustione. Dopo, per oltre venti giorni, i carbonai, anche con turni notturni che coinvolgevano tutta la famiglia, monitoravano costantemente la cottura del covone stesso, regolandone la temperatura e la giusta disidratazione del legno, attraverso l’alimentazione del fuoco, e la pratica di fare dei fori nella catasta fumante, per favorire la fuoriuscita del fumo prodotto dalla carbonificazione. Una volta finita questo processo, il covone veniva liberato dalla terra, il carbone veniva dissotterrato e confezionato in sacchi di juta, pronto per essere distribuito.
Da sottolineare che i carbonai nutrivano verso lo “scarazzu”, una devozione quasi religiosa.
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