Promossa dall’Associazione Culturale Anassilaos congiuntamente con Spazio Open un ennesimo incontro in remoto dedicato al ricordo di Napoleone Bonaparte nel 200° anniversario della morte (5 maggio 1821). A parlare dell’illustre Corso il Prof. Antonino Romeo con una conversazione sul tema “Napoleone: fu vera gloria?” che riprende il passo conclusivo della celebre ode manzoniana.
La conversazione sarà postata su You Tube e sul sito facebook di Anassilaos il 5 maggio prossimo nel giorno esatto della ricorrenza. In occasione dell’evento – comunica la Sezione Filatelia di Anassilaos – sarà emesso dall’Italia un francobollo che segue quello già emesso dalla Francia. A duecento anni dalla sua morte – afferma lo studioso – su Napoleone e sulla sua straordinaria esperienza continua ad aleggiare l’interrogativo che allora formulò Manzoni: fu vera gloria? Da poeta e moralista della storia qual era, Manzoni risolse la questione immaginando che «il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola» si sia infine posato sulla «deserta coltrice» dell’esule e l’abbia avviato «ai campi eterni, al premio che i desideri avanza, dov’è silenzio e tenebre la gloria che passò». Chi opera con i più modesti strumenti dell’indagine storica, non si addentra su percorsi tanto vertiginosi e si interroga, invece, sui motivi che fecero di Napoleone prima l’unico erede reale della Rivoluzione e poi il mito e il modello di riferimento per le generazioni successive, in un clima di interesse ammirato che si rinnova in continuazione. Si dice spesso, e con fondate ragioni, che Napoleone seppe assorbire in sé ed esaltare tutte le caratteristiche del suo tempo, non a caso definito comunemente “età napoleonica”: il giudizio è corretto, a patto di aggiungere che del suo tempo Napoleone seppe cogliere e valorizzare in modo particolare soprattutto quegli elementi che poi avrebbero caratterizzato i decenni e i secoli futuri, tanto che di lui si disse che suonò la musica dell’avvenire. Dinanzi alla Rivoluzione, nei giorni cruciali dell’Ottantanove, lui ventenne rimase decisamente ai margini, interessato soprattutto alle cose della sua Corsica; quando, qualche anno dopo, cominciò ad interessarsene, lo fece da posizioni apertamente giacobine, affascinato in modo particolare dal mito dell’uguaglianza e dal decisionismo dei nuovi capi. A differenza dei suoi sodali, però, capì ben presto che l’uguaglianza poteva poggiare soltanto sulla comunanza degli interessi, non su speculazioni astratte, ed individuò nell’esercito l’unica istituzione capace di realizzare l’obiettivo. Gli eserciti, si sa, servono a fare le guerre e Napoleone si rese conto che la guerra era lo strumento per spostare all’esterno l’aggressività delle masse ormai diventate protagoniste: il sanculotto divenuto soldato continuava a lottare contro i vecchi equilibri, ma questa volta senza mettere a rischio gli interessi dei proprietari, anzi contribuendo a soddisfare la vanità nazionale e, non dimentichiamolo, trovando per sé stesso una scorciatoia verso il successo. Un itinerario complesso, nel quale Napoleone era il regista e il regolatore unico, il solo capace di realizzare le sue straordinarie ambizioni nel momento in cui assumeva su di sé le aspirazioni di un popolo e tutta intera la sua storia. Una volta distrutto il sistema dei tre Stati in cui i francesi erano collocati durante l’Ancien Règime, i cittadini scoprivano di essere individui che si muovevano da soli nel confuso mare della nuova storia. Da qui il bisogno di affidarsi ad un capo che li rappresentasse, che di loro condividesse abitudini, stili di vita, ambizioni ed interessi e Napoleone seppe essere, e soprattutto seppe apparire, tutto ciò. Per facilitare l’operazione, recuperò gran parte della storia passata di Francia, dall’assolutismo alla rete degli intendenti, predisponendo strumenti operativi capaci di dare concretezza al suo disegno di ferrea centralizzazione. Il tutto in nome di quell’uguaglianza che gli uomini amano più della libertà e che negli anni di Napoleone non si trasformò in livida invidia di massa perché lui seppe indirizzarla e proiettarla verso l’alto: ognuno aveva nello zaino il bastone di maresciallo, una nuova aristocrazia prese il posto di quella fondata sul sangue, le guerre di vittoria e di conquista davano alla nazione tutta e ad ogni singolo l’ebbrezza del protagonismo. Tutta questa costruzione aveva un punto debole, che, paradossalmente, coincideva proprio con il suo elemento di maggior forza: era lui stesso, Napoleone, che garantiva l’efficienza del sistema e la sua crescita esponenziale, ma alla fine fu lui a determinarne la crisi quando mise da parte, e non poteva non farlo viste le premesse, ogni idea di limite. Proprio come i prodotti tossici della moderna finanza d’assalto, anche la bolla napoleonica scoppiò per la sua abnorme crescita, ma a quel punto, nella dolorosa solitudine di Sant’Elena, Napoleone si concesse l’ultima vittoria e disegnò il mito di sé stesso: la sventura lo pose al di sopra della storia, tanto che, come scrisse Victor Hugo, «Napoleone caduto sembrò più alto che Napoleone in piedi» e lui che aveva sempre dominato il tempo e aveva piegato alle sue esigenze il presente, si impadronì anche del futuro e dell’immaginazione dei posteri. Tutto ciò fu vera gloria? Certamente fu l’infinita grandezza di chi comprese che alla continuità si era sostituito definitivamente il divenire, fascinoso e nello stesso tempo motivo di angoscia e di smarrimento, per cui il mondo nuovo sarebbe stato di chi per primo avesse saputo offrire la suggestione di miti aggreganti per confortare tante inquietudini. E lo fece, motivo di autentica grandezza, con energia sovrumana e con l’intelligenza di chi predispone le strutture adatte a fornire effettiva concretezza a quei miti.
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