Le donne protagoniste della seconda parte del Workshop presieduto dal magistrato Marisa Manzini, organizzato nello stabile confiscato al clan Mancuso, oggi sede dell’università dell’antimafia, dall’associazione “Riferimenti” del presidente Adriana Musella. In primo piano le tragiche storie di donne calabresi come l’imprenditrice Maria Chindamo per la quale si parla di lupara bianca dopo l’improvvisa scomparsa del maggio scorso nel territorio di Limbadi e il cui fratello, Vincenzo, ha condannato “il vile gesto” di cui sarebbe stata vittima la sorella e raccontato il dramma di una donna sola, madre di famiglia perché “non ci si può abituare – afferma – all’idea che ci sia parallelamente al tribunale dello Stato un altro tribunale che lancia accuse, giudica, condanna e che esegue la pena, in questo caso di morte. Bisogna reagire e non abituarsi a tutto questo”. In particolare la Manzini si è soffermata sulle vicende di donne vittime della ‘ndrangheta solo perché avevano avuto la forza e il coraggio di tagliare nettamente con la famiglia di origine. Come Maria Concetta Cacciola o Lea Garofalo che ha fatto una simile scelta per far crescere la figlia al di fuori di quell’ambiente “proprio quello – sottolinea il magistrato – che le famiglie ‘ndranghetiste non vogliono”, o la storia di Tita Buccafusca, moglie del boss Pantaleone Mancuso “donna – dichiara il magistrato – assolutamente inserita nel contesto mafioso che ho avuto modo di vedere alle udienze del processo “Dinasty” conclusosi con il riconoscimento, ormai definitivo, della presenza su questo territorio del gruppo mafioso dei Mancuso”. La Buccafusca, nel 2011, si era presentata alla caserma dei Carabinieri di Nicotera denunciando apertamente la mafiosità della propria famiglia. “Anche lei voleva lasciare – dichiara la Manzini – per dare una vita diversa al figlio di 15 mesi. Non ha avuto la forza e il coraggio per proseguire su questa scelta. Dopo circa un mese si è “suicidata” bevendo mezza bottiglia di acido muriatico”. Il magistrato sottolinea che parlare di collaboratori di giustizia in Calabria dove la ‘ndrangheta si fonda sui vincoli della famiglia, significa spezzare un nucleo familiare in assoluto contrasto con chi fa tale scelta, ma se poi ad esserlo è una donna, diventa enormemente difficile perché la donna nell’ambito ‘ndranghetistico ha un ruolo di assoluta rilevanza con compiti precisi, soprattutto, quello di “educare” i figli ai valori mafiosi. “Se vogliamo cambiare – sottolinea – dobbiamo iniziare rifiutando l’indifferenza insieme a ciò che è mancanza di libertà per l’individuo”.