A partire dalla famosa legge 142/1990, l’assetto degli enti locali è stato notevolmente modificato dal legislatore, nello specifico, assegnando ai comuni –da allora non a caso definiti “enti esponenziali” della collettività di riferimento – una pluralità di compiti con tutte le possibilità ma anche e sopratutto le difficoltà che questa assunzione di responsabilità comporta. Coloro che pertanto ritengono che la gestione di un comune possa essere condotta come si faceva trent’anni or sono, o ignorano lo stato delle cose ovvero si pongono ancora una volta di più, in assoluta malafede.
E sulla scia di queste riforme che le città e le comunità locali hanno acquistato sempre più il ruolo di luogo base della democrazia e della partecipazione perché le stesse, pur con tutte le loro problematiche, sono diventate in moltissimi casi protagoniste del rilancio economico del territorio, laboratori delle nuove forme di organizzazione della società e persino della convivenza tra diverse culture e incubatori dello sviluppo di sistemi che garantiscono nuovi diritti e nuove opportunità a tutti i loro abitanti. Un processo di grande trasformazione che ha determinato, da una parte, il costituirsi di un senso di appartenenza alle varie comunità locali molto forte da parte dei suoi residenti, e dall’altra, lo svuotamento del tradizionale senso di appartenenza allo Stato nazione, sostituito in misura sempre maggiore dai municipi e dalle Città, nello svolgimento di funzioni strategiche per la vivibilità del territorio e per la sicurezza ed il benessere dei cittadini stessi.
A fronte di tali considerazioni si può dunque affermare che la nuova frontiera della cittadinanza è costituita dalla dimensione locale territoriale e non più solo dalla realtà statale poiché emerge sempre di più, infatti, la consapevolezza che il contesto nel quale si realizzano i diritti fondamentali degli individui è proprio quello urbano e locale.
Ciò comporta, in primo luogo, un ripensamento della cittadinanza stessa come cittadinanza locale che presuppone un legame tra individui che si fondi sull’appartenenza ad una comunità locale in termini di partecipazione alle politiche pubbliche; in secondo luogo, una rivisitazione dei diritti ad essa connessi, che si evolvono sulla base delle nuove esigenze avanzate dalla società civile; in terzo luogo, un ruolo centrale dei comuni e delle Città e delle istituzioni locali, nel suo processo di implementazione e di effettiva realizzazione dei “diritti emergenti” ad essa connessi.
Ciò che le istituzioni locali devono fare, a tal fine, consiste quindi nell’educare i propri cittadini alla partecipazione, all’iniziativa; nel modificare la propria modalità di governance, assumendo il nuovo ruolo di mediatore delle diverse istanze che provengono dalla società civile, abbandonando il preteso monopolio di intervento nello spazio pubblico; nell’adottare programmi ed interventi finalizzati alla realizzazione più piena dei diritti emergenti di cittadinanza locale e relazionale.
Per siffatti motivi un qualunque progetto che miri alla rinascita civile morale dei comuni come il nostro deve mettere al centro della sua azione l’adozione di tutti gli strumenti di partecipazione popolare previsti dal legislatore posto che, come ho già avuto modo di evidenziare in una precedente nota, a mio avviso, solo questo fatto può sicuramente far si che, nell’ordine: a) venga ridata al cittadino la facoltà di esprimersi su tutti i temi di interesse collettivo; b) si rafforzi il senso di appetenza dei cittadini stessi alla propria comunità; C) si rafforzi l’azione dei comuni che – grazie a questa applicazione pratica del cosiddetto principio di sussidiarietà, non solo verrebbe sgravato di alcune incombenze delegate ai corpi sociali ma nell’interlocuzione con siffatti soggetti troverebbe di certo il canale giusto per allargare la sua sfera conoscitiva e quindi, successivamente, di pronto intervento sul territorio.
Una qualsivoglia amministrazione locale oggi, soprattutto in tempi di ristrettezze economiche e di crisi sociale, non può quindi fare a meno dell’apporto – ovviamente organizzato e ben regolamentato – dei cittadini. E la messa in funzione di tutti gli strumenti di partecipazione popolare non solo ridarebbe voce a chi oggi spesso non è in grado di farsi sentire o a chi l’ha dovuta delegare solo ed esclusivamente alla politica ma costituirebbero un ottimo strumento di allenamento alla democrazia. Il tema ella partecipazione si sposa però, indissolubilmente, con una altra fin troppo elusa questione quella della trasparenza amministrativa. Capirete subito che non si tratta di una cosa secondaria. Una comunità infatti per essere coinvolta nelle scelte di governo degli enti preposti ad amministrarla non deve solo essere una comunità a cui si partecipa qualcosa ma anche una comunità ai cui cittadini deve essere garantito il pieno diritto di ascesso a tutte le tematiche di rilevante interesse collettivo poste in essere dagli organi di governo e ai quali si deve dare la netta percezione – concreta e non astratta o semplicemente teorica – che il comune, la provincia o la regione come lo stato centrale, siano delle “case di vetro” senza angoli bui, senza zone d’ombra. Questo significa innanzitutto non solo l’attuazione di tutti quei strumenti e accorgimenti tesi a rendere noti fin nei minimi dettagli l’attività dell’ente comunale ma soprattutto la totale e piena sottomissione dell’ente a quello che comunemente si chiama l’imperio della legge che deve diventare il principio guida, la stella polare dell’attività amministrativa. La “città della legalità” infatti non si realizza ricorrendo ad astratti sofismi o a convegni o ad annunci roboanti ai quali poi segue l’inevitabile e spesso assordante silenzio, bensì applicando questo semplice ma efficacissimo concetto. Difatti io ritengo che, in una città dove spesso la legge non si è applicata, bensì è stata disapplicata, oppure prorogata, derogata o deformata con interpretazioni creative (sic!) che in sostanza sono servite ad aggirare le sue maglie, sottomettersi all’imperio della legge è oggi il vero atto rivoluzionario che il cittadino può e deve fare. Il resto sono chiacchiere. Poichè un atto pubblico è tale solo se tutela tutti o se pone regole e vincoli per tutti e non solo per alcuni. Molto spesso sento dire, a volte anche per pura ingenuità, che pur di soddisfare le esigenze dei cittadini, si può essere per così dire “elastici”, o “non chiusi” o ancora “pragmatici”. Tutte parole tipiche del lessico del burocrate e che però purtroppo a volte sono usate per girare intorno alle situazioni potenzialmente scottanti o addirittura spiacevoli. Ebbene, una norma può essere certamente “interpretata” alla luce delle più svariate situazioni oggettive o resa “meno rigida” ma solo nella misura in cui così agendo non si nuoce all’interesse generale e non si vizia il buon funzionamento dei pubblici poteri. Difatti, così come basta un piccolo foro in una diga per aprire un grande squarcio e poi farla crollare per via della pressione dell’acqua, così un amministrazione che crea un precedente, anche piccolo, a favore di un segmento singolo o associato della sua comunità, ha posto le basi non solo per la sua stessa rovina ma anche per il perpetuarsi del malgoverno, gettando una luce sinistra di opacità su tutta la sua azione. E pazienza se alle volte la legge ci impone quasi sempre delle scelte impopolari – dura lex sed lex – perchè come diceva Alcide De Gasperi, un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista invece guarda alle generazioni future. Per questo è auspicabile che nei comuni, la prassi amministrativa sia ricondotta alle uniche due scale di colore consentite: il bianco e il nero. Del grigio purtroppo se ne è abusato abbastanza e del resto a me, e spero anche a voi tutti, come colore proprio non mi garba.
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