La città di Bova (in greco Vùa)- comune reggino posto a 915 metri dal livello del mare a sessanta chilometri da reggio – ha origine antichissima. Secondo la tradizione, una regina armena avrebbe guidato il suo popolo sul monte Vùa e tra le tante leggende di questa zona si narra infatti in cima al castello si trova un impronta chiamata “Piede della regina” e si dice che il giorno in cui tale impronta coincidesse con il piede di una giovane, la fortunata sarebbe messa sulle tracce di un tesoro nascosto da qual che parte.
Nel nome di Bova appare chiaro il riferimento alla presenza del bue, cioè a una terra adibita al pascolo dei buoi. E non a caso infatti, lo stemma del comune, raffigura un bue sul cui dorso è collocata l’immagine della Madonna col bambino. Versione questa che accoglie sicuramente l’influsso del cristianesimo.
Della storia di Bova sappiamo che i coloni greci provenienti dalla Locride assoggettano le popolazione preistoriche della zona tra cui gli Ausoni. Subisce poi le sorti della politica locrese ed è assoggettata in seguito ai tiranni di Siracusa. Dopo il periodo romano, nel quinto secolo è già sede di diocesi e rimane a lungo feudo dei vescovi di Reggio calabria. Le incursioni dei saraceni obbligano i sopravvissuti a lasciare la costa e le campagne per rifugiarsi sui monti. Nei secoli IX e X, vi è la colonizzazione bizantina, i cui influssi sono tuttora vivi, nell’antico dialetto greco parlato da parte della popolazione. Nel periodo 1040-1060 vi giungono invece i normanni che vi costruiscono un castello. Bova diviene così una contea governata dall’arcivescovo di Reggio che mantiene il titolo di conte e i privilegi feudali fino al 1806. Il rito greco ortodosso viene sostituito da quello latino nel 1572 per opera del vescovo Stauriano. Pochi anni dopo – 1577 – la popolazione viene decimata da una tremenda pestilenza seguita dalla carestia. Il terremoto del 1783 reca gravi danni alla città che risorge in epoca borbonica quando, nel 1820, il re di Napoli costituisce, a Bova a prevenzione di disordini nel territorio, un presidio militare. Nel 1943, un bombardamento alleato danneggia l’insediamento abitativo più antico.
Gli dei di Bova – scriveva Italo Calvino – sono greci e la grecità si è conservata e rinnovata all’arrivo dei bizantini sopravvivendo poi per molti secoli alla latinità imperante. I riti, la lingua, le tradizioni e soprattutto un raro senso dell’ospitalità ricordano la radice greca. Chi arriva qui è accolto in modo spontaneo e semplice da una comunità che non ha smarrito la memoria del suo passato. I piccoli vicoli che all’improvviso spalancano spazi aperti, la piazza assolata che sembra disegnata da De Chirico, le case disabitate dove il paesaggio penetra nelle stanze vuote. Bova è un ambiente fatto di luce e di silenzio che invita alla calma e alla riflessione. E di fatti è quasi certo che il dialetto ancora oggi parlato in questa città sia – caso unico in Italia – una derivazione diretta del greco antico. E arcaici sono anche gli strumenti musicali che sono suonati durante le feste come il tamburello utilizzato nella tarantella e la zampogna, probabile discendente degli àuloi greci.
Alla conoscenza di Bova ha molto contribuito lo scrittore e disegnatore inglese Edward Lear che percorrendo a piedi nell’800, queste contrade e affascinato da quello che lui stesso definì “l’irragiungibile cima della città” – ci ha lasciato il disegno, datato 1847, di “una delle più belle scene che si possano mai trovare in Italia”. Molte le vestigia del passato che è possibile ammirare. A cominciare dalla antichissima Cattedrale la cui costruzione originaria risale al V° secolo dopo cristo. Dedicata alla Madonna della Presentazione e frutto di successive ricostruzioni e ristrutturazioni, ha un interno a tre navate di tipo basilicale. Le opere più notevoli sono la Cappella del Sacramento, realizzata da maestranze siciliane specializzate nella lavorazione di marmi policromi intarsiati e la statua della Madonna “Isodia” con il Bambino attribuita a Rinaldo Bonanno (1584), posta su uno scanno di marmo che riproducevo stemma civico. Vi è poi il castello normanno – il rudere – e la torre di ugual periodo.molto pregevole anche la Chiesa di San Leo del XVII° Secolo, ha una sola navata con cappelle laterali, preziosi stucchi ottocenteschi alle pareti e un sontuoso altare in stile barocco, nella cui nicchia è collocata una statua di San Leo, opera del Bernini del 1582. Altri splendori barocchi vi sono nella Cappella delle Reliquie (1722). Molto bella anche la Chiesa del Carmine, sempre del XVII° Secolo. Altre chiese da visitare sono poi quella dell’Immacolata, quella dello Spirito Santo e quella di San Rocco dove si celebra secondo il rito greco-bizantino. Tra i vicoli infine, si affacciano molti palazzi gentilizi – Palazzo Mesiani-Mezzacuva, Palazzo Nesci Sant’Agata e Palazzo Tuscano che ospita il Centro visite del Parco Nazionale D’Aspromonte.
Tra gli eventi va segnalato il suggestivo carnevale grecanico, la Pasqua bizantina e la “Paleariza”, cioè il festival di musica tradizionale etnica e grecanica che si tiene tra luglio e agosto, il “Ballo du camiddhu” sorta di macuma mediterranea dove nacchere e tamburelli accompagnano il ballo tarantolato di un uomo imbottito di fuochi d’artificio, per finire alla “Ovarchè”, manifestazione di arti visive, musica e poesia. E’ possibile visitare poi anche due musei e cioè quello diocesano e quello di arte contadina. Presenti sul territorio interessanti botteghe artigiane – che offrono manufatti di vetro, tappeti, coperte, tovaglie, oggetti in legno – zone per fare trekking ed escursioni – come il Sentiero della Civiltà Contadina sorta di museo all’aperto, ideato e realizzato da Saverio Micheletta che si snoda tra i vicoli dell’antico borgo e dove sono stati installati i principali strumenti di lavoro della cultura contadinae – ottimi ristoranti nei quali degustare prodoti tipici come salumi, formaggi, ricotte e i dolci.