«Cibo è ciò che entra attraverso la bocca». Si legge nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia questa definizione che, sebbene a uno sguardo superficiale possa risultare generica, individua in modo inequivocabile un aspetto centrale dell’alimentazione: a seguito di una scelta consapevole, il cibo passa dalla bocca e viene letteralmente incorporato, diventando un elemento costitutivo dell’organismo umano. Ciò accade non solo da un punto di vista meramente fisico, ma anche culturale e addirittura spirituale, come nel caso emblematico dell’eucarestia. Ben prima del celebre L’uomo è ciò che mangia del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, la cultura cristiana altomedievale aveva perciò compreso che il cibo contribuisce dall’interno a costruire la nostra identità.
Proprio sull’alimentazione come fattore decisivo per esaminare tanto la vita quotidiana quanto l’universo simbolico di un’epoca si è concentrata la LXIII Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, svoltasi a Spoleto nell’aprile del 2015, di cui sono stati appena pubblicati gli atti in due pregevoli volumi (L’alimentazione nell’alto medioevo. Pratiche, simboli, ideologie, Spoleto, Cisam, 2016, pagine 1106, euro 170). Come nella tradizione dei convegni spoletini, i saggi che compongono la raccolta sono in più lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo e tedesco) e i contributi di argomento storico-artistico e archeologico sono accompagnati da ricchi apparati iconografici. Nel complesso gli interventi sono accomunati da un filo conduttore: la possibilità di considerare il cibo a tutti gli effetti un osservatorio privilegiato per indagare il passaggio dal mondo tardoantico a quello medievale, permettendo una revisione critica dell’annosa querelle storiografica tra i fautori di una cesura netta e repentina e i sostenitori di una lenta trasformazione. Da un lato, infatti, il contatto con il “mondo barbarico” porta a sostituire al lavoro della terra e all’addomesticamento degli animali lo sfruttamento di boschi e foreste e l’appropriazione di risorse selvatiche, modificando in profondità il tradizionale rapporto con il territorio e il tipo di alimentazione. Dall’altro, tuttavia, si riscontra una continuità tra le pratiche alimentari della società romana e le abitudini altomedievali.
In questa particolare temperie, il cristianesimo svolge un ruolo di mediazione e rottura a un tempo, caricando di significati simbolici i prodotti su cui già si basava la tavola mediterranea dell’antichità: pane, vino, olio e pesce. Questo fecondo sincretismo tra culture diverse, di cui il cristianesimo si fa interprete principale, è all’origine di una sensibilità religiosa del tutto nuova, in cui la capacità di respingere le tentazioni e dominare i desideri carnali, compreso quello verso il cibo, diventa specchio della virtù interiore ora del singolo ora di un’intera comunità.
Fonte. l’Osservatore Romano di Giovanni Cerro