Tra le mura vaticane lo chiamano “il bunker”. È il deposito che raccoglie gli 82 mila manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana. Se ne stanno chiusi in un ambiente tenuto a una temperatura costante di 20 gradi e al cinquanta per cento di umidità. Trentatré per cento per i papiri come Hanna 1 , che contiene la versione più antica dei Vangeli di Luca e di Giovanni. C’è il Canzoniere di Petrarca scritto dalla mano stessa del poeta; la Divina Commedia di Dante illustrata da Botticelli. C’è la Bibbia Urbinate (1476-1478) commissionata da Federico da Montefeltro vent’anni dopo l’invenzione di Gutenberg. Il duca di Urbino pensava che i libri a stampa fossero brutti perché in bianco e nero; investì allora il costo di una cattedrale – milioni di euro di oggi – ed etti d’oro per decorare il più splendente dei codici. Ogni giorno dal “bunker”, a turno, i manoscritti vengono portati al piano superiore: al laboratorio di restauro per un controllo e poi al fotografico per la più importante opera di digitalizzazione che la storia dei testi antichi conosca. Li attende un grande scanner.
Digita Vaticana, la onlus che cura il progetto e raccoglie i fondi per portarlo avanti, festeggia il superamento del 10 per cento del risultato, che vuol dire già novemila manoscritti riversati in digitale: settemila sono consultabili sul sito web. Per completare il lavoro a questo ritmo, ci vorranno quaranta – cinquant’anni e nuovi contributi. Per raccoglierli si avviano campagne di fundraising: l’ultima mette in vendita una speciale riproduzione in 3D a tiratura limitata di una pagina dell’Eneide del Virgilio Vaticano del 400 dopo Cristo (www.digitavaticana.org).
Nel Salone Sistino, voluto alla fine del Cinquecento da papa Sisto V, lo stesso che fondò la tipografia pontificia, i banchi per la consultazione sono vuoti. Ma quest’anno, finalmente, le porte della sala pensata per osservare i codici alla luce naturale dovrebbero riaprire, promette il Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana monsignor Cesare Pasini. “Lo scopo della digitalizzazione dei nostri manoscritti è sia la conservazione che il servizio – spiega – . Fissiamo in una fotografia ad altissima definizione lo stato di conservazione in cui il testo si trova. Il digitale non sostituirà mai la consultazione fisica, ma si affiancherà a questa per limitare i danni provocati dal contatto con pergamene e papiri”.
In bella mostra, tra gli affreschi, ci sono copie esatte di manoscritti precolombiani, dei trattati di geografia di Tolomeo, di erbari e codici di preghiera. Un occhio profano, non può distinguerli dagli originali. Sono replicanti perfetti. “Una digitalizzazione offre allo studio che si fa con gli occhi tutto quello che serve – precisa il Viceprefetto della Biblioteca, Ambrogio Piazzoni – . Anzi, da questo punto di vista, la verifica e gli ingrandimenti che si possono fare attraverso lo schermo sono meglio. Ma l’analisi completa di un manoscritto avviene anche attraverso il tatto. E questo non può essere ancora sostituito”.
Il tatto, appunto. Fino all’avvento della stampa, un manoscritto era miniato su pergamena animale: “Le vene, persino i bulbi piliferi sono ancora visibili sulle pagine. Così come le tracce delle dita che hanno consultato il libro nei secoli. Leccarsi i polpastrelli per sfogliare le pagine non conviene. Il nome della rosa insegna”, scherza la responsabile del laboratorio di restauro Angela Nuñez Gaitán, aprendo un Decretale del Trecento che raccoglie disposizioni giuridiche. La miniatura illustra il matrimonio. “Dalla scena abbiamo la prova che lo scambio degli anelli era già diffuso in Italia dal XIV secolo. In Francia, invece, gli sposi si davano semplicemente la mano”. Sul tavolo accanto, un restauratore sta trattando gli ideogrammi di un documento del Fondo Marega, appartenuto a un salesiano in missione in Giappone, che sembra uscito dal film Silence di Martin Scorsese.
Una volta controllati dai restauratori, i manoscritti sono pronti per la digitalizzazione. “Ci affidiamo a un formato di digitalizzazione stabile nei decenni”, spiega Irmgard Schuler, a capo del laboratorio fotografico. “È il Fits, adottato anche per conservare dati di astrofisica spaziale e medicina nucleare. In media per digitalizzare un libro manoscritto foglio dopo foglio impieghiamo un giorno”.
Fonte . Quotidiano “La Repubblica” del 21/01/2017