Domani 13 luglio a Soverato sul lungomare Europa (presso Just marinella), alle ore 19.00, il prof, Vito Teti presenterà il suo ultimo libro: “Quel che resta: L’Italia dei paesi tra abbandoni e ritorni”.
Vito Teti – lo ricordiamo – è professore ordinario di Antropologia culturale dell’Unical, dove ha fondato e dirige il Centro di iniziative e ricerche «Antropologie e Letterature del Mediterraneo». Tra le sue pubblicazioni: Il senso dei luoghi, Donzelli, 2004 (III ed. 2014); Storia del peperoncino, Donzelli, 2007; La melanconia del vampiro, Manifestolibri, 2007; La razza maledetta, Manifestolibri, 2011; Maledetto Sud, Einaudi, 2013; Pietre di pane, Quodlibet, 2014; Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale, Rubbettino, 2015; Fine pasto. Il cibo che verrà, Einaudi, 2015. Ha curato inoltre, con Francesco Loriggio, A filo doppio. Un’antologia di scritture calabro-canadesi, Donzelli, 2017.
L’autore dialogherà per l’occasione con Giovanna Maria Calabretta, mentre Claudio Rombolà eseguirà delle letture del testo.
«Mentre scrivo queste righe, il campanile di Amatrice cade sotto la forza del terzo terremoto che ha colpito, in meno di sei mesi, i paesi dell’Italia centrale. L’immagine del campanile viene riproposta ossessivamente. È una sequenza che angoscia e che però chiede di essere guardata e riguardata. Le immagini delle rovine, le visioni dei vuoti, delle assenze, dei luoghi a cui è stata sottratta la vita sono immagini perturbanti di cui abbiamo bisogno». Scrive così Vito Teti, nell’incipit di questo libro che riannoda il filo di una riflessione iniziata quindici anni fa con Il senso dei luoghi, un saggio che ha dato vita a un vero e proprio filone a cavallo tra antropologia, reportage, letteratura e fotografia. Nell’immagine del campanile di Amatrice, Teti scorge un mondo ben più vasto, che va anch’esso inesorabilmente franando. Mentre i grandi agglomerati urbani si preparano a ospitare la gran parte della popolazione mondiale, interi territori si spopolano. E lo spopolamento è la cifra delle aree interne di numerose regioni d’Italia e d’Europa. Di fronte a questo scenario, l’antropologo coglie l’abbandono come la forma culturale dello spopolamento e si chiede: cosa fare dei segni del passato, delle schegge di un universo esploso? Nella prospettiva di Teti, il passato può e deve essere riscattato come un mondo sommerso di potenzialità suscettibili di future realizzazioni. In agguato, certo, c’è il rischio che la retorica e la nostalgia restaurativa seppelliscano quel poco che, del paese, resta. Viceversa, la nostalgia positiva, costruttiva può essere sostegno a innovazione, inclusione e mutamento. Se la nostalgia diventa una strategia per inventare il paese, allora quel che resta è ancora moltissimo. L’antropologia dell’abbandono e del ritorno, di cui Teti definisce in queste pagine i tratti essenziali, è un tentativo d’interpretazione dei luoghi a partire da quel che resta, e che occorre ascoltare, prendendosene cura. Come scrive Claudio Magris nella prefazione: «In questo libro di scienza e di poesia c’è una profonda partecipazione al destino nomade e ramingo non solo degli emigranti partiti con le loro povere cose, ma di ognuno, delle stesse civiltà, del loro nascere e passare, ma forse mai definitivamente».