In questi giorni di inchiostro e solitudine, mi è capitato tra le mani un libricino di Salvatore Garofalo dal titolo: ” Un Messaggio dal Libano” che narra la vita di Santa Rebecca Ar-Rayès, una monaca libanese appartenuta all’Ordine Antoniano Maronita, proclamata Santa da Papa Giovanni Paolo II nel 2001.
Nel leggere il libricino, mi sono emozionata tanto ed ho deciso di condividere con i lettori la storia di questa straordinaria monaca.
Santa Rebecca nacque verso il 1832 nel villaggio di Himlaya, presso Bikfaya, a circa 700 metri di altezza e il suo nome arabo di battesimo è Butrossieh(Pierina).
La sua famiglia era cristiana maronita, apparteneva cioè all’unica Chiesa Orientale che non abbia mai avuto un ramo staccato dalla Sede Apostolica di Roma.
Suo padre era Mourad Saber al-Chabaq Ar-Ra-yyes, la madre si chiamava Rafqa El-Gemayel, e morì quando Butroussiyyah aveva solo sette anni.
Il padre si risposò dopo due anni.
La famiglia era molto povera così, appena fu grande abbastanza da poter lavorare, Butroussiyyah andò a servizio presso una famiglia cristiana libanese di Damasco.
All’età di quattordici anni, venne richiamata a casa dal padre, che desiderava farla sposare nonostante la sua contrarietà.
Sembra che sia rimasta a Himlaya fino all’età di ventun anni e che abbia rifiutato numerosi pretendenti.
Un giorno, mentre tornava a casa dopo essere stata al pozzo a prendere acqua, sentì la zia e la matrigna che discutevano animatamente su quale fosse il miglior partito per lei; sconfortata, decise di lasciare la casa e diventare suora, esaudendo così un desiderio nascosto da lungo tempo.
Partì nel 1853 per il convento di Santa Maria della Liberazione di Bikfayya, che apparteneva alle suore mariamette, una congregazione locale, fondata dai gesuiti, che si occupava dell’insegnamento.
Lungo il cammino incontrò altre tre giovani a cui propose di unirsi a lei; continuarono insieme e si presentarono alla superiora, che accolse Butroussiyyah senza ulteriori valutazioni e chiese alle altre due di tornare un’altra volta.
Il giorno seguente arrivarono il padre e la matrigna per ricondurla a casa, ma ella scongiurò la superiora di non mandarla nel parlatorio, e da quel momento non li vide mai più.
Prese l’abito nel 1855, assumendo il nome di Anissa (Agnese).
Era una novizia umile e rispettosa, amata e stimata da tutti.
L’anno seguente, il 1856, fu trasferita a Ghazir, dove fece la sua professione e dove rimase per sette anni come cuoca della comunità.
Quell’anno i drusi, che a partire dal 1840 avevano sempre fatto incursioni contro i cristiani, sferrarono un attacco violentissimo durante il quale rimasero uccisi quasi ottomila cristiani in Libano in soli ventidue giorni.
Le strade di Deir-al-Qamar furono sommerse dal sangue dei maroniti; anche se i drusi non erano soliti uccidere le donne, per precauzione un arabo durante l’attacco nascose le suore in una stalla e da allora suor Agnese non poté più ricordare la carneficina di quei giorni senza piangere.
Dopo due anni trascorsi a Deir-al-Qamar, Agnese si trasferì nella città di Gebail per un anno e poi per un altr’anno in quella di Ma’ad.
In seguito alla richiesta da parte di un ricco cristiano di mandare un’insegnante nel suo villaggio, che si trovava nello stesso distretto, suor Agnese vi si recò e iniziò a insegnare in una classe di sessanta alunni, alloggiando nella casa di Antonio Issa e sua moglie.
Nel 1871 una profonda crisi scosse la congregazione: i gesuiti volevano unire le mariamette e le sorelle del Sacro Cuore, due istituti che perseguivano scopi quasi identici e che avevano entrambi perso una parte delle proprietà nei massacri del 1860.
Le due congregazioni però non riuscirono a raggiungere un accordo e i religiosi della Compagnia di Gesù decisero di sopprimerle entrambe.
Suor Agnese non desiderava tornare alla vita del mondo come altre sorelle fecero: Antonio Issa vide il suo sconforto e le propose di nominarla sua erede se fosse rimasta a insegnare nel villaggio.
Dal momento che ella era però decisa a entrare in un monastero, si offrì di pagarle tutte le spese e la raccomandò all’arcivescovo.
All’età di trentanove anni, il 12 luglio 1871, suor Agnese entrò nel monastero di S. Simone El-Qarn dell’ordine baladita, una delle due congregazioni monastiche nelle quali l’ordine maronita del Libano si era diviso nel 1770. La professione ebbe luogo il 25 agosto 1873 ed ella prese il nome della madre, Rafqa (Rebecca).
Rebecca si distinse nel nuovo monastero per le sue qualità di obbedienza e devozione che da sempre la caratterizzavano, arricchite ora dalla convinzione di essere arrivata a casa; aveva una bella voce e cantava l’ufficio con slancio, in maniera concentrata e gioiosa; era sempre la prima a arrivare nel coro alla mattina e spesso si recava in chiesa per pregare.
Le sue superiori ritenevano che il suo amore verso le sorelle avesse raggiunto un alto grado di perfezione: se vedeva qualcuna triste, tentava sempre di consolarla; visitava spesso gli ammalati ed era sempre disposta a trascorrere la notte al capezzale di chi avesse bisogno di cure particolari. Se qualcuno veniva punito, chiedeva di essere sottoposta anch’essa alla medesima punizione come incoraggiamento e per scacciare ogni sentimento di rifiuto nei suoi confronti. Non cercava nulla per se stessa: non chiese mai un abito nuovo, preferendo portarne uno di seconda mano, e i suoi unici beni erano un cuscino, un fuso e una scatola di metallo per gli aghi da maglia.
Rebecca, tuttavia, sentiva che la sua vita non era completamente dedicata a Dio.
Nella festa del Rosario nell’ottobre 1885 si recò in chiesa e più tardi descrisse così l’esperienza: “Compresi che la mia salute era ottima e che non ero mai stata malata, così pregai: “Mio Dio, perché mi sei così lontano? Perché mi hai abbandonato? Non ti sei manifestato a me nell’esperienza della malattia, mi hai forse abbandonato?”. Quella stessa notte sentì un dolore violentissimo alla testa che si estese agli occhi. Fu il primo segno della sua passione, che sarebbe durata ventinove anni.
I dolori agli occhi e alla testa divennero quasi intollerabili, e iniziò a perdere la vista all’occhio destro. Un guaritore glielo cavò, con la conseguente concentrazione del dolore nell’occhio sinistro. Il suo unico conforto era poter recitare l’ufficio a memoria.
Riteneva che le sue sofferenze fossero nulla in confronto a quelle di Cristo: “Il mio capo non è coronato di spine, non vi sono chiodi nelle mie mani o nei miei piedi. Devo espiare delle colpe. Egli, nel suo amore per noi, ha sopportato infiniti obbrobri e sofferenze, e noi non lo ricordiamo mai”.
In due occasioni si senti un po’ meglio.
Per la festa del Corpus Christi, sentì un intenso desiderio di partecipare all’eucarestia e pregò intensamente per ottenere la grazia: improvvisamente sentì il suo corpo scivolare fuori dal letto e i suoi piedi protendersi verso il pavimento.
Si trascinò fino in chiesa, lasciando le sorelle sbalordite per lo stupore. Rimase seduta durante la Messa e, dopo la benedizione finale, chiese di poter rimanere un altro poco.
Quando fu ora di tornare in cella non riuscì più a muoversi. In un’altra occasione la superiora le chiese se non desiderasse nulla per se stessa ed ella rispose che avrebbe voluto riavere la vista per un’ora per poter vedere lei e le altre sorelle. Subito riacquistò la vista per il tempo di un’ora, riuscendo a vedere le cose nella stanza.
Suor Rebecca morì il 23 marzo 1914 all’età di ottantadue anni e venne seppellita due giorni dopo nella tomba destinata alle suore con grande partecipazione del popolo, attratto dalla fama di santità che godeva presso tutti.
Il 10 luglio1927, le sue spoglie mortali vennero trasferite nella chiesa del Monastero di San Giuseppe, Jrabta, Batroun, Libano.
Una grande Santa, un prezioso fiore del Libano.
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