“Le strade vive della filosofia/Percorsi morali e politici per l’oggi” è un ciclo di conversazioni, ancora in remoto, del Dott. Vincenzo Musolino, promosse dall’Associazione Culturale Anassilaos, congiuntamente con lo Spazio Open, che tratterà di alcuni filosofi e pensatori (Giuseppe Rensi e lo scetticismo della “morale come follia”; Carlo Rosselli e il socialismo non marxista; Dario Antiseri e l’origine cristiana della laicità politica; Agnes Heller e la dittatura sui bisogni; Carlo Antoni e il liberalismo filosofico; Wilhelm Röpke: il vangelo è di sinistra?; Carl Schmitt e l’Eurocomunismo; nonché di alcuni temi di grande attualità come “La Destra che manca nell’era del Sovranismo “rivoluzionario” e “Socialisti e liberali, insieme. La buona regola del Riformismo”). La prima conversazione, disponibile da martedì 26 maggio sul sito facebook di Anassilaos e su You tube, è dedicata ad Hannah Arendt e il “mondo” tra passato e futuro. La Arendt, scrive lo studioso, attraverso il prisma della banalità del male, interpreta la storia umana come storia dell’epifania insolita di libertà. Sia la natura che la storia soggiacciono di norma all’automatismo, al destino del probabile. Talora, ad interrompere questo automatismo, interviene l’inatteso improbabile che si chiama libertà umana con un nuovo inizio. Si realizza, per ciò, a causa dell’intervento umano libero quell’infinito incerto, un vero e proprio “miracolo” che consente l’ordine nel mondo la sopravvivenza, la cooperazione e la pace. La politica, per Arendt, o è al servizio di questo miracolo o non è. Per questo la sfera degli affari umani è lo spazio dell’agire pubblico teso a costruire il Futuro, a prepararlo per i nuovi venuti. È lo spazio essenziale di una vita estroversa che completa l’uomo, che lo salva anche dai dispositivi biologici della sopravvivenza. Ed in questo senso, per Arendt, noi siamo esseri incompiuti, nel senso di una incompiutezza metafisica che, come tale apre l’uomo al mondo e alla vita sociale. Senza questo impegno di organizzazione metafisica della “casa comune” nulla avrebbe davvero senso per la formazione e la trasformazione della società, e mancherebbe qualsiasi proiezione oltre di noi, oltre la generazione in corso. Uno strumento indispensabile per questo agire è evidentemente la capacità umana di persuadere, di convincere gli altri delle buone ragioni e del buon senso, oltre l’operatività dello sterile autoritarismo del potere. In tal senso, la persuasione costituisce un vero e proprio arricchimento, un di più indispensabile che non serve a noi stessi ma al domani.. Più, quindi, che l’essere per la morte di Heidegger la Arendt sottolinea un essere per la vita, il ruolo della natalità, del venire alla luce che è tramite tra le generazioni, novità che irrompe nel flusso dello scontato, ponendolo in contraddizione con la forza dirompente del novum. Il nuovo che mette sempre in discussione il vecchio, che minaccia appunto una ripartenza, che sfascia la meccanicità del solito e che si impegna per rifare il mondo, a partire da una eredità che si sgretola donando i suoi frutti maturi. Un’eredità vittima dell’imponderabile, dell’arrembaggio di una nuova egemonia che non si arrende al flusso delle generazioni, e che alla caducità naturale e storica oppone, quindi, la propria freschezza. Un’imprevedibilità del possibile che sconfessa il probabile, che può e deve essere declinata anche come coraggio, il coraggio delle nuove generazioni che rischiano e il coraggio delle vecchie che si impegnano nel trasmettere quel “passato” che sarà indispensabile, a edificarlo nelle istituzioni. Coraggio che è, per Arendt, una qualità politica, pubblica, aperta.
Quando la libertà, invece, non è più esperibile come tale nella vita associativa e nell’azione, quando l’autoritarismo si impone per sottrarre responsabilità all’individuo, quando lo stato etico si sostituisce al diritto e all’opinione pubblica, ergendosi come un Moloch sottratto alle vicende del dialogo e della persuasione tra liberi e pari, allora la libertà si chiude allo spazio pubblico, comincia ad indentificarsi solo con l’esperienza di un volere solitario, di un patire resistente ma muto, si introita nel rapporto con se stessi, nell’ambito di una volontà chiara ma concussa socialmente. La libertà concussa pubblicamente diviene e si struttura, quindi, come libero arbitrio della coscienza e ci si dedica individualmente a pensarla, a sognarla e non più a praticarla.