“Fimmana” è l’ultima – l’ottava, per il momento – fatica letteraria di Caterina Sorbara, scrittrice e giornalista di Gioia Tauro, edita per i tipi della Casa Editrice Leonida.
La Sorbara attraverso una scrittura volutamente semplice e chiara racconta tante storie, espressione di un amore smisurato e che mirabilmente dalla diversità si riconducono ad unità nelle riduzione letteraria che l’autrice fa delle loro vite e dell’amore che, in forme diverse ne è il comune denominatore. Sono voci di donne che si raccontano. Flashes e pagine di vita condensate, di gioie semplici, di dolore, di sofferenza, di speranza, che nella semplicità del racconto fanno trasparire un’ansia di infinito. Donne che svelano ciò che è taciuto, segreti che non devono essere svelati. Donne che raccontano la loro condizione di amata e di amante.
Nina, Matilde, Teresa, Elena, Iris, Andreina, Violetta, Concettina, Alessandra e Flaminia sono le donne, o meglio, le “Fimmane”, protagoniste del romanzo. Ognuna di loro è una “fimmana”, si, “Fimmana”: donna in dialetto calabrese che dà al termine una forza e una pienezza di significato e di valori che il termine italiano non rende. Fimmana vuol dire donna a 360 gradi, non solo oggetto di sensualità e carnalità, ma fonte di vita, elemento unificante della famiglia come solo la donna calabrese sa essere.
Le donne del romanzo, “Fimmane” forti e appassionate amano, al di sopra di tutto e tutti, Amano, sfidando il falso perbenismo e “la legge dei padri”. Le “Fimmane” alla quali Caterina Sorbara si ispira sono lo specchio romanzato di tante realtà sofferte, sottaciute, nascoste che Caterina Sorbara con un’operazione realmente coraggiosa fa emergere nella loro drammaticità. Donne che soffrono come Teresa condannata alla sterilità, impossibilitata a dare un figlio all’uomo che ama. “Un figlio mio e tuo”, desiderato, agognato, ma destinato a restare un sogno.
Donne che vorrebbero condividere una casa, un giardino, un camino, un caffè con l’amato. Un sogno irraggiungibile perché all’amata/amante non è e non sarà mai concessa una casa, né un giardino, al massimo un caffè lontano dagli occhi indiscreti dei perbenisti e delle male lingue , donne fattrici che mai hanno conosciuto l’amore e credono che forse l’amore sia solo accondiscenza e sottomissione finalizzata alla riproduzione
Sullo sfondo le bellissime città italiane evocate dall’autrice sulle ali del ricordo di visita e viaggi di una non definita età narrata con i colori dell’adolescenza. Siena, Arezzo , la Toscana e l’amata Firenze, luogo dell’anima. Roma la città eterna, il cui nome letto all’incontrario è “amor”. Roma con lo storico Caffè Greco, i monumenti, le chiese e zio Ciccio Mamone, il fratello della “Nonna Cata”: meraviglioso cicerone, anima bella e generosa, calabrese nel cuore al di la e oltre l’acquisito accento romanesco. La Campania, Napoli ammaliatrice e Pompei. E infine la Calabria, riotttosa e aspra, ma bella e generosa e l’incantevole Zomaro, la montagna suggestiva nei suoi colori autunnali e infine Amato, un piccolo borgo perso fra gli ulivi della Piana a Sud di Taurianova : borgo contadino regno di antichi retaggi e prevenzioni patriarcali . Qui l’autrice conosce Flaminia e racconta il suo dolore.
Pagine intrise d’amore, di dolore, frutto di una ricerca che porta l’autrice ad un lungo cammino per le strade del cuore. Un cammino che diventa dovere, impossibilità di scelta, di rifiuto, di ribellione ad una quotidianità che impone sempre e comunque sacrifici e rinunce “dovere”, però anche perché le donne che hanno raccontato all’autrice paragrafi delle loro vite, vogliono essere ricordate, non vogliono essere dimenticate. Una di loro dice:” Non dimenticatemi, ricordatemi nelle vostre preghiere”. Un dovere allora anche quello dell’autrice: di testimonianza civile che, attraverso la narrativa non faccia cadere l’oblio su queste vite. Per Caterina Sorbara è stato – crediamo – un “dovere” gradito compiuto non solo nei confronti delle donne del suo romanzo , ma idealmente anche per tutti coloro che nel tempo “si amano e si sono amati”.
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