Mercoledì 9 giugno 2021, nella casa dei Padri Scalabriniani ad Arco, in provincia di Trento, ha concluso la sua vita terrena padre Maffeo Pretto.
Era nato nel 1929 a Cologna Veneta (Verona).
Dal 1979 è stato una presenza significativa a Briatico, centro del Tirreno vibonese, dove aveva costituito il Centro studi emigrazione dedicato a Mons. Scalabrini.
Autore di numerosi libri, tutti pubblicati dalla casa editrice Progetto 2000 di Cosenza, che tra l’altro ha in corso di stampa un suo nuovo saggio: La Calabria e la sua cultura popolare tradizionale. Padre Pretto, con la sua personalità e i suoi studi, lascia un’eredità davvero unica. I suoi amici stanno organizzando una serie di iniziative in agosto per ricordarlo e rilanciarne il suo messaggio.
Riportiamo integralmente il ricordo dell’editore Demetrio Guzzardi (Progetto 2000)
Ho incontrato per la prima volta padre Maffeo Pretto a Briatico il 21 giugno 1986, poche ore prima che venisse celebrato il mio matrimonio. Rimasi colpito dalla quantità di libri presenti nella sua stanzetta che fungeva da ufficio parrocchiale ma anche sede del Centro studi sulle emigrazioni calabresi. Da quell’incontro è nato un rapporto intenso e fecondo, non solo i libri che la mia casa editrice ha edito, ma soprattutto per l’amore che il sacerdote scalabriniano mi ha fatto scoprire verso il mondo popolare. A lui ho voluto dedicare la mia mostra dei santini calabresi perché quella gente che lui amava è diventata anche per me, parte del mio vissuto. Tantissimi i viaggi in macchina per presentare i suoi studi e, in quelle occasioni, padre Maffeo mi parlava in anteprima delle sue scoperte sull’affascinante mondo della fede popolare. L’ultima volta che l’ho incontrato ad Arco gli ho chiesto qual era il ricordo più bello della Calabria, mi ha risposto: «Quando confessavo alcune vecchiette, ascoltando la fatica del loro vivere quotidiano, mi sarei voluto inginocchiare, baciando loro le mani e chiedendo per me una benedizione dalla loro vita santa, nel seguire gli insegnamenti del Vangelo».
Cinque confetti rossi dentro un sacchettino infiocchettato che rappresenta la laurea del 56mo laureato. La cinquantaseiesima soddisfazione per padre Maffeo Pretto, direttore del Centro studi di Briatico e parroco della cittadina tirrenica, che da 25 anni è riuscito a far studiare e formare le coscienze di tanti ragazzi accolti nell’unità pastorale che conta le parrocchie di Briatico, San Costantino e San Leo. Il religioso ha scritto nell’immaginetta che amabilmente mi offre al momento del congedo: «Padre Maffeo Pretto, missionario scalabriniano, rende grazie a Dio, alla Vergine Santissima, al Beato G.B. Scalabrini, alla grandezza eroica di tante persone dei nostri paesi, alle aspirazioni inesauribili di tanti giovani incontrati per il 50° di sacerdozio e 25° di attività pastorale in Calabria».
Gli eroici è riferito ai calabresi che lui ha conosciuto e amato, che sono e saranno i suoi compagni di vita avendo deciso di vivere per sempre in Calabria.
Lo vado a trovare a Briatico per parlare dei difetti dei calabresi, un discorso che non ha pretese scientifiche o letterarie ma che, dal versante giornalistico, cerca di capire l’aspetto antropologico dei calabresi per spiegare, nelle forme possibili e con la fallacità dello strumento cronachistico, il perché della paralisi della regione che sembra inchiodata nella sua immobilità. Esplorate le categorie della storia, dell’economia, della sociologia, della geografia e della politica, non restava che avventurarsi nelle caverne dell’antropologia con l’umiltà del profano e l’incoscienza del free lance.
Dopo aver ascoltato un demologo e uno scrittore, l’interesse volge il suo sguardo alla Chiesa di periferia che ha molti titoli per osservare le donne e gli uomini di Calabria. Per indagarli senza sfiorarli col dubbio dell’offesa. E quale soggetto migliore, dal versante religioso, poteva essere se non un prete, per giunta forestiero, missionario e studioso? Di più: antropologo. E già perché padre Maffeo (variante orientale di Matteo) nella sua casetta di Briatico ha una biblioteca con oltre 15 mila volumi, insegna Antropologia e Teologia popolare alla Pontificia Università Urbaniana di Roma, ed egli stesso è autore di libri importanti quali La pietà popolare in Calabria, Santi e santità nella pietà popolare in Calabria, Teologia della pietà popolare. Un esperto della materia.
Quando l’incontro nel suo studio ha davanti a sé le bozze del suo nuovo libro, che sta per licenziare in questi giorni per i tipi dell’Editoriale Progetto 2000 di Cosenza.
Una sua breve presentazione…
«Sono un missionario scalabrianiano che fa parte di una Congregazione che lavora con gli emigrati in tutte le parti del mondo, e calabresi ne abbiamo trovato un’infinità; gruppi molto uniti, solidi. È sorta in noi la problematica, in questo periodo di interculturalità, di venire in Calabria per conoscere l’ambiente calabrese, la mentalità, la cultura, la storia. Noi scalabriniani abbiamo molti Centri studi sul fenomeno dell’emigrazione a New York, Roma, Londra, Parigi, Buenos Aires… L’emigrazione come problema dell’interculturalismo non basta più. La prima cosa che bisogna conoscere sono le culture. Questo è il motivo per cui io ho iniziato qui, mandato dalla mia Congregazione che vuole capire di più questo mondo calabrese».
Lei da dove viene?
«Da Verona, poi ho insegnato per diversi anni nei licei classici, ho passato un periodo negli ambienti universitari a Roma dove ho partecipato ai gruppi di studio con Aldo Moro, un periodo tremendo».
Che ricordo ha di Moro?
«Diceva sempre: dobbiamo stare attenti, dobbiamo comprendere. Chiedeva: cosa volete? E loro rispondevano: vogliamo eliminarvi. Erano troppo estremisti, e lo eliminarono davvero. Dopo l’assassinio la cosa decantò, ma io non volli più rimanere lì».
Nel 1979 arrivò in Calabria. Come fu l’impatto?
«Scegliemmo volutamente i piccoli paesi da cui sono partiti gli emigrati; studiarli a Cosenza non so quanto sia significativo. Eravamo già venuti in Calabria nel periodo estivo con un gruppo di studenti; abbiamo avuto diversi contatti a Simbario, Taverna e in tante altre parti. Ma ci siamo accorti che questi incontri sporadici servivano a poco, erano necessari dei punti stabili, nelle parrocchie, altrimenti i vescovi non ci lasciavano venire, solo per fare i Centri studi… (risata). La Calabria che ho trovato è un mondo diverso dal mio, ma…».
Ma?
«La vicinanza, la consuetudine, il rapporto umano continuo ti fa cambiare profondamente la valutazione dal punto di vista esterno. Il disordine, è quello che emerge subito. Poi, parlando con la gente, ci si trova di fronte a una profondità umana, un eroismo che è grande; lì ho cominciato a scoprire la cultura popolare, la religiosità popolare, la mentalità popolare, cercando di scrivere con metodo antropologico, e poi, man mano che andavo avanti, i ragazzi si avvicinavano sempre di più e insieme a loro, ho fatto queste piccole ricerche, che poi ho pubblicato. A un certo punto è emersa la situazione attuale, non solamente quella del passato».
Che è?
«Una problematica enorme di fronte alla quale io mi trovo ancora in difficoltà, perché sono convinto che bisogna, prima di tutto, comprendere di più la situazione calabrese. Non per niente facile».
Ma non è stata già abbastanza analizzata la situazione calabrese?
«Sì si analizzata, però se rimane solo sui libri, vale poco: si deve innanzitutto capire che qui la situazione è difficilissima».
Parliamo di omertà…
«La faccenda dell’omertà è un problema enorme. Si è sedimentata pian piano… La Calabria non ha avuto la civiltà dei Comuni, è sempre stata sotto il dominio feudale (il feudalesimo, per di più con diversi popoli, che hanno usato questo strumento). Il feudalesimo che cos’è? Toglie tutte le responsabilità, e la povera gente non deve fare altro che quello che dice il padrone; la collaborazione, il dialogo, la capacità creativa… non hanno mai potuto farlo, mai mai…».
Ma in altre regioni meridionali qualcosa è successo, mentre qui…
«Bisogna vedere fino a che punto; anche in Lucania ci sono quasi tutti i fenomeni che ci sono qui…».
La mafia in Basilicata non c’è…
«È vero. Qui la ’ndrangheta domina tutto, controlla ogni cosa».
La presenza della ’ndrangheta viene spiegata con la mancanza di lavoro, non pensa che ci sia dell’altro?
«C’è una paura profonda che quando emerge… Le racconto la mia esperienza. All’inizio, da ingenuo, man mano che facevo amicizia, ti ricevono subito a braccia aperte, simpatici, ecc. Domando: esiste la ’ndrangheta? Non esiste. Io ero convinto dopo tre anni che era una costruzione giornalistica. Se non c’è, non c’è; capita qualche fatto, bruciano un pagliaio, tagliano le gomme…. Ma un giorno è capitato che hanno ammazzato un giovanotto di 24 anni che conoscevo. Ho fatto il funerale e sono rimasto sconcertato dalla massa di gente che c’era, venuta dagli altri paesi. Chiedevo: cosa siete venuti a fare? Eh parroco, a rendere onore. Cosaaa? A rendere onore? Allora ho chiamato un ragazzino che aveva sedici anni. Si può sapere questa benedetta ’ndrangheta che cos’è? Guarda che sono rimasto spaventato quando ho fatto il funerale. Questo ragazzino si alza, va a chiudere prima la porta a chiave e poi la finestra, e piano piano comincia a raccontare. Ecco, lì ho capito…che il passato non ha mai permesso alla gente di essere autonoma, mai mai…».
Come se ne esce?
«Se la Lombardia e il Nord Italia non avessero avuto l’esperienza del Comune di Milano… cos’era l’esperienza dei Comuni? Le varie arti si mettevano insieme, collaboravano. Qui non si può improvvisare in quattro e quattro otto».
Qui la cooperazione è sconosciuta.
«Andai dai pescatori per stimolarli a unirsi e un vecchietto mi disse: Padre le spiego io, “a Briatico na società per essere bona deve essere dispara, ma tri su assai”».
Ma sono stati fatti tentativi in questa zona di costituzione di cooperative?
«Ne sorsero tre, due chiusero subito, una terza sopravvisse perché fondata sulla parentela. All’inizio dicono di sì, però quando agiscono salta fuori quel sottofondo che è più forte di loro. Si litiga prima di scavare fino in fondo».
Al concetto dell’onore si lega il rispetto…
«Chi ha è e chi non ha non è».
Le ricordo l’affermazione di un sociologo americano che segnalò lo scarso senso civico dei calabresi.
«Certamente va combattuto per l’amor di Dio. Ma non è un difetto perché i calabresi non sono colpevoli, sono vittime».
E l’individualismo?
«È la stessa cosa. Ma quando sono stati liberi di fare qualche iniziativa? Dipendevano tutto dai feudatari. Di contro il calore umano, l’amicizia, sono cose meravigliose».
Ma il familismo…
«Come potevano rifugiarsi? Da chi? Certo, è un difetto molto grosso, ma non dimentichiamo che le esperienze fatte al Nord hanno mille anni…».
Nei flussi migratori alcuni hanno trovato difficoltà a integrarsi nelle nuove residenze. Molti sono diventati leghisti sfegatati.
«La gente cerca sempre di ricostruire nel nuovo luogo in cui va a vivere il suo ambiente naturale. Questo è un limite, ma bisogna capire che l’emigrato istintivamente si comporta così».
Avverte la mancanza di classe dirigente in Calabria?
«Certamente. La politica è totalmente piegata al clientelismo».
Ci sono parole o espressioni che l’hanno particolarmente colpito?
«Mi piace tanto il dialetto calabrese, focu meu, mancu li cani. Ma tre parole non le ho mica ancora capite. Quando uno mi dice no è senz’altro no, ma quando si dice sì cosa vuole dire sì? Si può capire? E poi quando si dice domani, quand’è che arriva domani? Passa un mese e ancora non è arrivato domani. E poi quando mi dicono non si preoccupi, allora mi fate proprio preoccupare».
Filosofia di vita, roba da levantini.
«Mah…».
Tutti colpevoli, tutti innocenti. E la Chiesa?
«Anche i preti sono figli del loro ambiente. Pio X che era un veneto, inviava in Calabria vescovi forestieri; ma Giovanni XXIII voleva fare cardinale un prete lucano, don Giuseppe De Luca che è stato il più grande studioso della pietà popolare».
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