IRIS E IL CIELO DI ROMA.

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Correva l’anno 1992 e Roma per me era la città più bella del mondo.

Era ormai sera, una splendida sera di primavera e  la festa del matrimonio di Graziella, la bellissima figlia del mitico zio Ciccio, si era appena conclusa.

Era stato tutto perfetto: la cerimonia civile nella Sala Rossa del  Campidoglio e il ricevimento in un noto locale dove, allora si ritirava la nazionale di calcio.

Dalla finestra dell’albergo che ci ospitava, ammiravo il tramonto che dondolava sul “Cupolone”.

In quel momento, la canzone del mio cantante preferito Antonello Venditti, sembrava scritta apposta per me.

L’albergo che ospitava i parenti del profondo Sud  si chiamava ” La Campagnola”, adatto a noi che venivamo da un piccolo  borgo di campagna.

Zio Ciccio aveva proprio azzeccato!

Il rosso del tramonto romano, sembrava più intenso, più vero, di quello che si addormentava sulle chiome degli ulivi pianigiani.

Ed io ostaggio del travaglio della mia anima, mi rendevo conto che avevo una tremenda voglia di vivere,  di conoscere, di amare,  di sognare.

Una voglia che mi portavo dietro dall’infanzia e che cresceva con il passare degli anni, fino a diventare consapevolezza.

Capivo che avevo voglia di libri, di  teatro,  di cinema , di cultura, e  la vita che io sognavo, non era quella del piccolo borgo natio.

Quella maledetta vita,  costellata da rinunce, lutti e  solitudine  non mi apparteneva, non era mai stata mia.

Io avevo una tremenda voglia di vivere e di conoscere.

Il tramonto infiammava il cupolone, i tetti  e le terrazze romane,  ed in me cresceva anche  il desiderio di amare, di  correre da lui, l’uomo con “le stellette” e fare una passeggiata sotto il cielo di Roma, magari fino al Colosseo.

Avrei voluto che lui mi amasse, che potesse provare gli stessi sentimenti che io provavo in quel momento per lui.

Avrei voluto che mi portasse a ballare.

Volevo vivere con lui, avevo fame di vita, di amore  e di conoscenza.

Il bouquet che Graziella, come da tradizione aveva lanciato, quando era passato sopra di me, aveva quasi preso la rincorsa, allontanandosi velocemente.

L’avevo preso come un cattivo presagio. Avevo purtroppo ragione!

Io però continuavo a guardare il cielo di Roma, così bello, così magico, così ricco di storia, così diverso da quello del borgo.

Lo guardavo e continuavo a sognare: un’Ave Maria intessuta d’amore, un bouquet di zagara e rose e un velo di pizzo francese.

Ancora oggi  quel cielo mi è rimasto nel cuore, così come il velo di pizzo francese e quella maledetta voglia di vivere, di amare, sorridere e sperare; nonostante il freddo di tutti questi anni, le rinunce, le umiliazioni, i dolori, la prosa, la poesia, gli articoli e le piccole soddisfazioni.

Così com’ è rimasto il ricordo di zio Ciccio che ogni anno d’estate veniva a trovarci con la sua simpatia, il suo sorriso, la sua indimenticabile battuta: ”Mannaggia lo patre turco che  se magnato lo granoturco”.

La zia Igone,  moglie di zio Ciccio  era  buona e dolce, originaria della spirituale Umbria, mi raccontava di quando da giovane era arrivata a Roma in cerca di lavoro.

Per strada c’era il carretto con i gelati e il ragazzo che li vendeva gridava:” I coni gelato”.

Lei pensava dicesse : ”Igone il gelato” e si chiedeva perché uno sconosciuto volesse offrirle il gelato e correva via.

Quel cielo maledettamente bello è rimasto con me, non mi hai mai abbandonata, come il mio amore per lui e il ricordo di zio Ciccio e zia Igone che vivono ancora tra le pieghe lacrimose del mio cuore.

“Mannaggia lo patre turco che se magnato lo granoturco”.

 

 

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