“E’ di questi giorni lo scambio di pareri avvenuto tra i sindaci di Nicotera, Limbadi e Joppolo a proposito di una possibile fusione tra i rispettivi comuni. Volendo dare un nostro contributo come gruppo consiliare di minoranza all’interno del comune di Nicotera, partiamo col dire che, secondo noi – e senza presunzione alcuna –, si è sbagliato nell’approcciare la questione”.
Esordisce così Antonio D’Agostino, capogruppo di Movi@Vento, in un suo comunicato. La discussione risale a qualche giorno fa, quando il sindaco Giuseppe Marasco, in un suo post sui social, aveva paventato una possibile fusione dei comuni di Nicotera, Joppolo e Limbadi.
“Sarebbe forse stato opportuno – afferma il consigliere comunale -, da parte del sindaco Marasco, fare una piccola indagine esplorativa per sentire un pò più riservatamente il parere dei propri omologhi. Un diverso metodo è proprio quello che il nostro gruppo Movi@Vento stava praticando (prima che il sindaco di Nicotera irrompesse sui media), avendo già incontrato il sindaco Mercuri di Limbadi e avendo in programma di incontrare quello di Joppolo. L’errore di Marasco, peraltro, non è stato solo di metodo, ma anche di merito. Il nostro gruppo difatti aveva indirizzato l’avvio del confronto e la verifica delle disponibilità da parte degli altri sindaci non alla “fusione” tra i rispettivi Comuni, ma all’”Unione”; e c’è una profonda differenza tra questi due istituti, entrambi previsti e disciplinati nel Tuel. Intanto, il percorso della fusione è complesso, lungo e dall’esito incerto. Basti pensare che l’iter inizia col progetto di fusione, cui deve seguire una legge istitutiva regionale, un referendum e una convalida del provvedimento legislativo di riordino territoriale, per concludersi con l’approvazione definitiva della legge istitutiva del nuovo comune, contenente la denominazione dello stesso e la determinazione della nuova circoscrizione territoriale. Tutto ciò al netto di una delle principali difficoltà: quella correlata alla prevedibile contrarietà delle singole comunità, non disposte a rinunciare o, comunque, a vedere “annacquate” le proprie peculiarità. Infatti, la fusione determina la soppressione dei singoli Comuni e la nascita di uno nuovo, con nuovi organi, diverso territorio, differente popolazione ed una differente denominazione. L’Unione tra comuni, invece, lascia integre le specificità e l’autonomia dei singoli enti, che si associano per “l’esercizio associato di funzioni e servizi” ( così l’art. 32 del TUEL). I comuni che scelgono questa forma associativa non scompaiono, ma creano una struttura comune per gestire al meglio, con maggiore efficienza e maggiori economie, i servizi di competenza comunale. Non solo tale forma non è definitiva, al contrario della fusione, e può avere una durata definita o essere a tempo indeterminato; ma ha soprattutto il vantaggio di aumentare le disponibilità finanziarie degli enti, poiché per legge anche le Unioni sono destinatarie di maggiori trasferimenti di risorse”.
In sintesi, per D’Agostino, la costituzione dell’Unione non implica maggiori spese in quanto gli organi dell’Unione (Presidente, Giunta e Consiglio) non hanno diritto ad alcun compenso, espressamente escluso dalla legge; dal punto di vista finanziario si sostiene tanto con risorse proprie (quelle già destinate dai singoli comuni ai servizi che si mettono in gestione comune), quanto con trasferimenti statali e regionali.
“È proprio quest’ultima circostanza – dichiara D’Agostino – a rendere conveniente tale forma associativa, poiché l’Unione potrà beneficiare di importanti trasferimenti sia regionali che statali destinati all’incentivazione delle gestioni associate. A partire dal d.m. 289/2004, all’Unione dei comuni è infatti attribuito un contributo in base: a) alla popolazione dell’associazione b) al numero dei comuni costituenti; c) ai servizi in forma associata. In conclusione, dall’esame delle disposizioni di legge, ne emerge la conveniente soprattutto per i piccoli comuni; ed è ciò che hanno capito bene molti dei 6.631 comuni italiani soprattutto del centro nord e molto meno quelli del sud; le percentuali di Unioni variano infatti da un massimo dell’81,38% (Emilia Romagna) a un minimo del 12,21% (Basilicata) nel sud. La Calabria staziona al penultimo posto con appena il 12,47%. Dovrebbe bastare già questo a indurre i nostri amministratori a considerare adeguatamente la possibilità di unirsi, invertendo per una volta quella miope ed inveterata abitudine a non cooperare, perseverando invece in pratiche individualistiche che non possono che danneggiare la crescita sociale ed economica delle comunità“.