MARZO

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Marzo è il terzo mese dell’anno, il nome deriva dal  latino «Martius», in riferimento al fatto che il mese fosse dedicato al dio romano Marte: alla divinità erano attribuiti il raccolto primaverile e la guerra.

Prima della  riforma giuliana, era il mese con cui l’anno aveva inizio.

Mia nonna diceva: “Megghiu to mamma i ti ciangi ca u suli i marzu i ti tingi” e anche   “marzo pazzerello esce il sole e prendi l’ombrello”.

Nemmeno in questi giorni intessuti di dolore, marzo si è smentito.

Il cielo il giorno dell’addio a zia Caterina era un grande  specchio azzurro, sereno, limpido, ma poi nel  pomeriggio all’improvviso si è oscurato, assumendo il colore grigio dell’autunno e una pioggia scrosciante è caduta sulla città di Ibico  e sul mio dolore.

Saudade: all’arrivo di Marzo al borgo natio, la campagna iniziava a mutare l’aspetto invernale.

I rami degli alberi cominciavano a mostrare le prime gemme.

Sbocciavano i primi fiori: le viole mammole e subito dopo altri meravigliosi fiorellini come le pervinche, le primule e le pratoline.

Sbocciavano non solo nei prati, ma lungo  i viottoli e lungo i fossi, ai piedi degli ulivi e degli aranceti.

I peschi lungo la strada della Ferrandina, iniziavano a coprirsi di rosa, come anche sul ciliegio iniziavano a vedersi i fiorellini bianchi.

Le galline addolcivano il canto, iniziavano a vedersi le prime farfalle.

Ritornavano  gli uccelli iniziavano aa cantare tra gli alberi, anche suq quelli ancora spogli.

Ritornavano la cincia, la capinera, l’allodola, il pettirosso e le rondini, dando vita a un meraviglioso concerto.

Marzo portava la festa di San Giuseppe.

Mia mamma e mia nonna andavano a Sant’Eufemia d’Aspromonte a trovare il loro personale San Giuseppe, papà putativo di Gesù.

La mattina di San Giuseppe, le comari del paese, in suo onore preparavano la pasta mista con i ceci e le vie del borgo si riempivano del profumo dei ceci.

E’ una tradizione molto antica, si racconta che a Giuseppe e Maria nessuno aveva dato ospitalità durante il viaggio che avevano  intrapreso per andare a registrarsi, secondo il censimento indetto da Cesare Augusto.

Non trovarono nessuno che li ospitasse,  per il parto del Messia.

È da questo concetto che nasce nei tempi antichi l’usanza, in occasione della festività di san Giuseppe, di offrire ai poveri un pasto caldo.

In questa ricorrenza, infatti,  non c’era “foculàru” in cui non cuocesse un “pignatedu” con i ceci  ed i poveri che bussavano a quella casa erano ospiti graditi, come se accogliessero Giuseppe e Maria con il Bambinello.
Per questo  il 19 marzo c’era  l’usanza di cucinare la pasta con i ceci e offrirla a tutto il vicinato.

Se chiudo gli occhi vedo ancora comare Rosa e comare Maria che arrivavano con il piatto in mano

Mia mamma preparava anche le frittelle di San Giuseppe, una versione dolce delle zeppole che preparava a Natale, sempre, legata alla figura del Santo.

Infatti, secondo la tradizione cristiana, l’uomo fu costretto a diventare venditore di frittelle durante la fuga in Egitto per sfuggire alla strage degli innocenti ordinata da Erode e riuscire, quindi, a mantenere la sua famiglia.

Un altro ricordo legato a marzo, risale a quando ero più grande,  quando frequentavo l’università.

Avevo bisogno di un tavolino per poter scrivere comodamente e studiare, perché la scrivania era scomoda.

Papà aveva dato l’incarico  ad Attilio che era un bravissimo falegname.

Il tavolino arrivò il 21 marzo giorno dell’arrivo della primavera e anche giorno dedicato alla poesia, infatti il 21 marzo era nata Alda Merini.

Ricordo la felicità di quel giorno, le prime poesie, il primo libro e la mia tesi di laurea le ho scritte su quel tavolino, che possiedo sempre e  dove ancora ancora scrivo.

E ancora un  altro ricordo  è legato alla Giornata Internazionale della Donna che si celebra l’otto marzo.

Io sognavo di poter partecipare a convegni, a momenti di riflessione, ma al borgo natio questo non esisteva.

Era il secondo anno d’insegnamento e nel plesso dove lavoravo, le signore avevano prenotato al ristorante per(a loro dire), ”festeggiare l’8 marzo”, io sapevo che non c’era niente da festeggiare, ma loro continuavano ad insistere che andassi anch’io e così per non offenderli, ci sono andata.

Ricordo che mi sono annoiata tantissimo e mi  sono anche vergognata di trovarmi lì, dove il significato della celebrazione non esisteva.

Il giorno dopo sono stata malissimo, tanto da dover ricorrere al medico, che mi prescrisse delle punture disintossicanti  e che mi fece Vincenzo, il nostro vicino di casa.

Ricordo, rimasi a letto tutto il pomeriggio, mentre  il timido sole di marzo inondava la mia cameretta, mamma e papà erano andati al funerale di zia Angela.

Io piangevo perché stavo male, perché sognavo una vita diversa da quella che ero costretta a vivere, perché ero terribilmente sola.

Piangevo e sognavo; piangevo  e speravo, perché nonostante tutto, volevo credere che un giorno forse i  miei sogni sarebbero divenuti realtà.

Un altro ricordo legato a questo mese è il  ricordo del vento che danzava tra gli ulivi, a volte freddo, a volte caldo, a volte irruente, in linea con il mese.

Ma marzo  era e lo sarà sempre, la porta della primavera, e per questo io lo amavo e lo amo ancora.

Oggi, il vento danza sul mare di Geolia, ad Amato l’albero della mimosa è meraviglioso e nei prati le campanelline sembrano graziose principessine, minuscoli fiorellini fanno da corona e la poiana scrive alla luna su un albero ancora nudo.

Anche il mio cuore, nonostante  marzo, è nudo.

Ho detto addio a zia Caterina, anche lei, come me, nata nel  piccolo borgo tra i secolari ulivi degli Acton, dove adesso l’allodola piange su un ramo d’ulivo, dove adesso marzo saltella nel vento, dove adesso la casa è vuota, dove tutto è perso e spento.

Marzo è ritornato, la poetessa è sola e il profumo dei ceci non esiste più.

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