Ho sempre amato il vento, il suo canto amico delle Muse, la sua carezza tra i miei capelli e sul mio viso.
Mi piaceva passeggiare tra gli ulivi del borgo natio, all’ombra del vento.
Se chiudo gli occhi, mi rivedo mentre danzo con lui tra gli ulivi .
Amavo soprattutto il vento in autunno, la mia stagione preferita per il suoi colori, i suoi profumi, la sua magia.
Il vento faceva danzare le foglie ingiallite che accompagnavano il ritorno negli inferi della dea Persefone
Io danzavo con loro, mentre mulinelli di polvere si alzavano dispettosi, costringendomi a chiudere gli occhi.
Papà conosceva tutti i nomi del vento: Tramontana, Grecale, Levante Scirocco, Mezzogiorno, Libeccio e Ponente.
Ho sempre amato la storia, l’archeologia, l’arte e quando per la prima volta ho visitato il sito archeologico dell’antica Locri Epizefiri, a pochi chilometri dal luogo in cui sorge la moderna Locri, ho appreso che non è il luogo nel quale i primi coloni greci sbarcarono. Essi, infatti, approdarono dapprima nella baia adiacente capo Zefirio (antica denominazione del promontorio, oggi chiamato capo Bruzzano, che deriva – come aveva scritto Strabone – dalla caratteristica presenza dello Zefiro, il vento occidentale), per poi spostarsi, dopo alcuni anni, verso nord, dando luogo alla fondazione della città vera e propria .
Nell’antica Locri era venerata Persefone e forse anche per questo, ho amato sempre di più il vento.
Ma torniamo al borgo natio, dalle “rughe” il vento faceva danzare l’odore delle caldarroste, dei “vroccula affucati” e della carne arrostita.
Era il tempo in cui si ritornava ad usare i “foculari”, dei lumini e dei crisantemi che le comari compravano da un venditore ambulante, per portarli al cimitero.
La sera del 2 novembre Enzo Rigoli, acconciava una zucca arancione a mò di teschio, metteva dentro un lumino e insieme ad altri ragazzi giravano per le rughe a chiedere noci e caramelle.
Le vecchine dicevano:”Passanu i morticedi”.
Il borgo natio era il mio “piccolo mondo antico”, più tardi quando ho letto Cent’anni di Solitudine di Gabriel Garcìa Màrquez , ho battezzato il borgo con il nome di Macondo.
Ancora oggi, amo il vento che agita il mare della mia Geolia , che fa danzare i gabbiani e che si confonde con il suono delle campane di San Gaetano.
Mi viene a trovare ancora, il vento, ed io ritorno a danzare con lui, ritorno nella mia piccola Macondo e rivedo comare Grazia, Maria, Comare Rosuzza e Rosa Sgrò e tante altre figure ormai scomparse.
Sul lungomare di Geolia, il vento mi culla, mi accarezza ed io mi domando se da qualche parte dell’universo c’è ancora quella bambina, che danzava con il vento, se ha realizzato i suoi sogni e se sogna ancora.
La saudade pungola l’anima, mentre lo Stromboli da lontano sorride e le nubi di rosso vestite si muovono sinuose nel grigio cielo.
Il vento soffia e rivedo la bimba che si trasforma in una piccola donna, ama ancora il vento.
Negli anni 90 un gruppo musicale Paideja cantavano: “Propiziu ventu”.
Nell’oceano della solitudine tra gli ulivi, la piccola donna cantava questa canzone che sembrava scritta apposta per lei.
Il vento le parlava, le sussurrava parole che diventavano versi, che diventavano strofe, che diventavano poesie.
Sulle sponde del Petrace, spirava il vento e si confondeva con gli inni intonati a Persefone , a Era, a Iside e dopo l’Editto di Costantino alla Vergine Maria.
Le preghiere si confondevano con la voce del vento, parole sussurrate dal vento.
Rosari di solitudine, lacrime di vento.
Tutto passa, tuto finisce, tutto tace, tutto scompare, l’amore muore, se ne va con il vento e non ritorna, se non nei ricordi, sempre se vogliamo ricordare.
I morti non parlano o forse parlano ma noi non riusciamo ad ascoltarli, la loro voce è nel vento, si confonde con il vento.
Il vento che ancora continua a ritornare per farmi compagnia , per farmi sognare ancora la bambina, la ragazza che danzava nel vento e che oggi non c’è più.
Anche lei è sparita nel vento, il vento tra gli ulivi.