Rencensione di Daniele Capezzone al libro di Mario Caligiuri:” Intelligence e Magistratura”.

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Mario Caligiuri è un uomo solare, generoso, intelligente. E’ stato per anni il sindaco vulcanico di un piccolissimo comune della Calabria, Soveria Mannelli, e lo ha trasformato – come mi capitò di dirgli – in un’”allucinazione nel deserto”: nel contesto non facile che ciascuno può immaginare, un’isola di iniziative, di vivacità culturale e civile, e soprattutto di buona amministrazione. Se ne accorse anche il Censis in uno dei suoi rapporti annuali. E quella pagina di buon governo (della quale il centrodestra nazionale mai volle accorgersi: le buone pratiche, si sa, vanno sistemate nell’ultimo cassetto in fondo…) è la dimostrazione che una buona “narrazione” deve poggiarsi sull’“azione”: altrimenti è chiacchiera fastidiosa.

caligiuri

Ma Caligiuri ha anche una sua “second life”. Presso l’Università della Calabria, ha da anni organizzato un master dedicato all’intelligence come pilastro essenziale per la strategia di sicurezza nazionale. E forse, in anni in cui la demonizzazione era quasi unanime, si è trattato di un primo passo per superare le diffidenze e i sospetti rispetto all’attività dei servizi segreti, troppo spesso ritenuti solo “il lato oscuro del potere”.

In un libro agile, che sceglie appositamente un registro didascalico e di estrema semplicità, Caligiuri si sforza di auspicare un passo ulteriore: l’avvio di un percorso di collaborazione tra magistratura e intelligence, se non in nome – e già basterebbe – del principio di leale collaborazione istituzionale, almeno in quello del necessario contrasto alle minacce terroristiche.

Caligiuri parte dall’inevitabile rosario degli scontri tra magistratura e servizi, sotto forma di arcifamose inchieste giudiziarie. Alcune, assai fondate. Altre, invece, concluse con pronunce di assoluzione. Caligiuri non fa l’avvocato difensore di nessuno, però non può non osservare come agli squilli di trombe legati all’arresto di Vito Miceli (fino al 1975 capo del Sid), all’arresto del dirigente del Sismi Marco Mancini (nel 2006), passando per le lunghissime inchieste a carico di Mario Mori e Nicolò Pollari, abbia fatto seguito una sequenza di assoluzioni. Il che – se non altro – dovrebbe far riflettere su come lo stato si comporti rispetto ad alcuni suoi uomini e alla loro reputazione, carriera, identità, immagine.

Ma il punto del libro di Caligiuri non è commentare alcuni (spesso ingiusti) casi giudiziari del passato. Il cuore del saggio sta nel tentativo di ragionare su come due attività fisiologicamente lontane l’una dall’altra – oltre che reciprocamente sospettose – possano invece trovare un denominatore comune. Gli uni (i magistrati) non partendo necessariamente dall’idea che l’azione degli altri sia fatalmente illegittima, e gli altri comprendendo che l’attività giudiziaria può essere un utile complemento e conclusione della propria.

Del resto, in termini legislativi, uno spazio di cooperazione è già tracciato, almeno in tre modi. Per un verso, con il riconoscimento di garanzie funzionali per gli uomini dei servizi: che sono, come si sa, esonerati (entro certi limiti) da responsabilità penali nello svolgimento delle loro funzioni istituzionali. Per altro verso, con la possibilità per il Presidente del Consiglio di venire a conoscenza degli atti di procedimenti (pur coperti da segreto) che afferiscano alla sicurezza della Repubblica. Per altro verso ancora, con il fatto che i magistrati possano procedere all’esame sul posto di cose e documenti, e acquisire gli atti indispensabili alle indagini.

Ma Caligiuri – giustamente – non si accontenta di una cornice normativa generale ed astratta. Sollecita un cambio di mentalità: un reciproco riconoscimento, vero e non formale, e magari una rinuncia da parte di alcuni magistrati a una logica di spettacolarizzazione.

Più in generale, il volume, davvero pregevole, mi ha suscitato almeno cinque osservazioni personali:

  1. Risucchiati come siamo nelle microconflittualità quotidiane, perdiamo di vista il rischio terroristico, specie quello di stampo islamista. Ce ne ricordiamo solo nella tragica occasione di un attentato, ma poi la corda dell’attenzione, fatalmente, tende ad allentarsi.
  2. La sfida terroristica (sia quella dei lupi solitari, sia quella delle organizzazioni terroristiche più note, sia quella alimentata da stati-canaglia) è una minaccia complessa: militare, economica, finanziaria, “cyber”, e così via: e richiederebbe come tale una risposta altrettanto “interconnessa” e “complessiva”. Si richiederebbero leadership politiche e culturali in grado di chiamare le cose con il loro nome, di indicare il nemico, e di mostrare una vera volontà di annientarlo. Churchill e gli americani sconfissero il nazismo accettando la sfida, non negandola, non derubricando e nascondendo la drammaticità della posta in gioco.
  3. Per una comprensione del livello della sfida, il “fattore umano” è indispensabile. Servirebbero figure – nella politica, nella magistratura, nei servizi, ma anche nel dibattito pubblico – capaci di una lettura non conformista e non conforme delle cose, di uno sguardo lucido e senza pregiudizi su un mondo in trasformazione. Mi sia consentito un dubbio al riguardo: se nell’establishment italiano si contano …su poche dita di una sola mano di un grande mutilato coloro che hanno capito i fenomeni Brexit e Trump, figuriamoci come siamo messi rispetto alla comprensione degli scenari geopolitici e geostrategici. Spero ovviamente di essere troppo pessimista.
  4. Anche perché (a me pare) oggi è essenziale la lettura e la comprensione delle “fonti aperte”: di quanto è disponibile (su Internet e sui media), di quanto è già sotto i nostri occhi. Servono però “cellule grigie” per elaborare questo materiale.
  5. Ecco perché, ferme restando le sacrosante istituzioni democratiche e le ancora più sacre procedure legali e costituzionali, servirebbe una élite consapevole, intelligente, lungimirante, cosmopolita. Le pagine migliori dell’Italia (a partire dall’obiettivo dell’Unità, nella seconda metà dell’Ottocento) sono state scritte così. Ma sembrano cose – purtroppo – lontane e dimenticate.

Daniele Capezzone

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