2016-12-02 L’Osservatore Romano
Costantemente pulsa la vita nei ragazzi col braccialetto rosso al polso. Prima, seconda, terza stagione; il grido è sempre lo stesso, “Watanka”, e sempre la stessa è l’energia, la vitalità di questa bizzarra e colorita banda, tostissima nel difendere i valori dell’amicizia e dell’amore. Adolescenza normalissima, la loro, se non fosse per quel rapporto così forzatamente stretto col dolore e con la morte. Continuamente contrastato, tuttavia, da una relazione altrettanto profonda, ma stavolta volontaria, con la vita.
L’emotività e la passione esplodono in Leo, in Cris, in Vale, in Toni, in Davide, in Nina e negli altri della comitiva che nel tempo si allarga, si modifica e si rafforza. Come i loro coetanei, gli adolescenti di Braccialetti rossi si tuffano nei sentimenti, amano visceralmente la musica, si sentono più sicuri quando stanno insieme, e imparano presto a trasformare l’amicizia e la solidarietà in arma contro il male. Insieme si fanno i muscoli per reggere l’enorme peso della malattia, danno spallate e scalciano in gruppo quando questa vuole mangiargli l’anima prima che il corpo. «Conta che quel giorno c’eri tu», dice la sigla della prima stagione, e mentre i legami si saldano e ci scappano baci e sospiri d’amore, il tumore è chiamato col proprio nome e il dolore viene guardato in faccia con coraggio inedito per il piccolo schermo in chiaro. Il male non sempre vince, dall’ospedale si esce anche guariti; l’amaro e il dolce convivono in Braccialetti rossi, e nel contrasto continuo tra questi grandi estremi sta la forza della popolare fiction di Rai Uno, prodotta dalla Palomar di Carlo Degli Esposti in collaborazione con Rai Fiction. Quando la piccola Flam, verso la fine della terza stagione, ottiene la vista con un intervento chirurgico, si spaventa per il dolore dilagante che scopre passeggiando dentro l’ospedale; poi i suoi occhi nuovi di zecca cadono sui baci di una coppia, su una coccinella che attraversa una foglia, sulla potenza del sole, e in quella bellezza Flam ritrova la pace.
La sequenza comprime l’intero teen drama diretto da Giacomo Campiotti e da lui scritto insieme a Sandro Petraglia: scende la notte più buia e butti qualche lacrima, poi la vita torna a vibrare e splendere come il sole che batte spesso sul terrazzo dell’ospedale.
Non che tutto sia perfetto in Braccialetti rossi: la recitazione dei ragazzi non sempre è all’altezza, la sceneggiatura non è al livello delle serie che da tutto il mondo ci piombano in casa e ci incollano alla poltrona, col loro linguaggio decisamente cinematografico; qualche stereotipo passeggia per la narrazione e la favola abbraccia il realismo fino ad avvolgerlo e coprirlo. Ma il dinamismo interiore, la lealtà e il coraggio di questi ragazzi, alla lunga fanno breccia in adulti e adolescenti fino a diventare per entrambi esempio positivo.
La direzione ostinata e comune dei Braccialetti rossi è buona maestra. C’è tanto dolore, è vero, in questo remake della spagnola Polseres vermelles, a sua volta tratta dal libro autobiografico di Albert Espinosa, che ha lottato molti anni contro un cancro: c’è «l’eterna vulnerabilità di fronte alla morte di un ragazzo», come la definisce il medico interpretato da Andrea Tidona, e c’è il genitore impotente di fronte al dolore di un figlio.
Ci sono, però, anche i teneri omaggi all’amore materno e c’è un dolore capace di far cogliere l’essenza della vita, ciò che vale davvero, che sa illuminare il cuore dell’esistenza umana e formare giovani e genitori prima stressati e distratti, «che non sanno vedere», per dirlo con le parole di Rocco, l’imprescindibile del gruppo, il piccolo in coma che presta la voce narrante alla prima stagione. C’è una gran voglia di vivere che commuove quanto l’addio a un personaggio o il ritorno alla vita di un altro. C’è la gioia per chi ce la fa, per due occhi che tornano a vedere, per un cuore che torna a battere, per una sofferenza che muore e una normalità che riparte con tutt’altro sapore.
- Tags: braccialetti rossi