Proponiamo ai lettori questo interessante scritto del Prof. Vito Teti.
Camminavo verso la spiaggia, sotto la luce dei lampioni, dall’albergo della Marina di Nicotera in cui avevo alloggiato. Era ancora alba, il sole alle spalle sul paese in alto, quell’otto dicembre del 2000, ma il bar del borgo dei pescatori era aperto e qualcuno mi offrì il caffè. Mi diressi verso il mare e vidi che i pescatori tiravano le reti e qualcuno sistemava la barca per la processione della Madonna. Guardai lo specchio di mare nel cui fondo, a fine Settecento, alcuni pescatori avevano visto qualcosa di luccicante, l’imbarcazione con la statua della Madonna. L’aria era ancora gelida e pensai che di tutti i riti a mare (da quelli più antichi e ai più recenti) osservati e documentati dalla metà degli anni Settanta a quel momento, questo era sicuramente uno dei più intensi, emozionanti, coinvolgenti. Raggiunsi la chiesa e la gente arrivava alla spicciolata, vestita a festa, con fiori che andava a deporre alla base della statua. La chiesa si riempì in poco tempo. Quando verso le undici, dopo la celebrazione solenne, uscì il corteo c’era una folla enorme di persone del luogo e gente arrivata dai paesi vicini, dal centro storico e c’erano anche tanti fotografi e operatori. Quando le donne e i portantini consegnarono la statua dei pescatori, che cominciarono a entare nell’acqua, fu un sovrapporsi di implorazioni, silenzi, preghiere, applausi. Camminavo, mi fermavo, scattavo con la mia Nikon FM, mi vidi, con le donne e i pescatori e i giovani, con i piedi nell’acqua. Fu in quel momento che il consueto interrogativo che “ci faccio qui” mi fece capire che stavo svestendo, in parte, i panni dello studioso e dell’antropologo, che ero diventato come gli altri, uno che partecipava a quel rito comunitario. Non c’era tempo per domandarti se “credevi” o non “credevi” in quello in cui gli altri dicevano o pensavano di credere. Eri uno di loro, uguale e diverso, ognuno con i suoi pensieri, le sue ansie, le sue emozioni, il suo stupore, le sue speranze. Messi assiemi tutti questi sentimenti creavano un’atmosfera magica, un clima di sospensione, una carica di rigenarazione. Camminavo lungo la spiaggia, l’acqua salata del mare mi riempiva la testa, mi bagnava le gambe e arrivava fino alla mia Moleskine nella tasca e alla macchina fotografica che sollevavo in aria per salvarla dall’umidità delle onde. Sono nato in un paese di collina e il mare, pur tanto amato, non è mai stato un habitat naturale. Nuotare è stato sempre un’impresa, un’ansia, una fatica: camminare nell’acqua del mare, con le onde che ogni tanto si alzavano, diventava una scommessa, una conquista, una prova. Alla fine la processione arrivò dove un tempo era giunta la Madonna. La gente piangeva e pregava. Dalle balconate del lungomare arrivavano voci, applausi, urla di centinaia di persone che assitevano, partecipando, a un rito spettacolo. I marinai e i pescatori armeggivano con i remi e con i motori delle imbarcazioni. I portantini erano estenuati, bagnati fino al volto, ai capelli, erano fieri e tesi, paghi. Acqua, donne, uomini, bambini, barche, statua formavano una schiuma primigenia di vita e di speranza. Fu in quel momento che ho pensato che quel rito di immersione, azzerava per me il tempo, non avevo un passato e un presente, ero senza tempo e senza colpa. Mi sentivo un’unità con gli altri, con i miei amici, con i miei ammalati e pensai, per un istante, che tutto sarebbe stato diverso. Fuori dall’acqua mi sedetti, stanco come se fossi vissuto cent’anni, mi tolsi le scarpe e i calzini, cercai di salvare il taccuino: strinsi la macchina e ripresi a fotografare. Guardavo, fissavo, inquandravo, scattavo: tornavo al mio io ordinario e mi vidi osservato dai fedeli e dai marinai che avevano l’aria soddisfatta e sembravano dirmi: bravo, sei stato come noi. Uno dei nostri. E ho pensato che quello ero io: appeso, inquieto, partecipe, lontano e vicino, dentro e fuori. Mi misi dietro la statua della Madonna, in corteo, a fianco alle persone che si asciugavano, commentavano, chiacchieravano, si davano la mano e si abbracciavano e si dicevano arrivederci all’anno prossimo. Non sono più tornato, da allora, a vedere quella processione. Ho timore che sia cambiata, che le mie percezioni e visioni siano mutati e che tutto quello che ricordo sia frutto degli inganni e delle attese della memoria. Perché il tempo che rinasce, poi passa. La vita che si rifonda, poi si consuma. Ma questo mio ricordo, quasi un flusso di coscienza, come un tuffo nelle onde del mare e della vita mi restituisce, con nostalgia, il senso profondo del mito e del rito. Sento che un giorno tornerò anche a Nicotera Marina, come in altri luoghi sacri e carichi di senso, di fatica, e di speranza. Non ci si allontana mai dai quei luoghi, e una volta che li hai frequentati e vissuti, i luoghi, ti abiteranno per sempre.
Il racconto di fondazione del culto dell’Immacolata a Marina di Nicotera
Il racconto di fondazione del culto dell’Immacolata a Marina di Nicotera ci conduce alla seconda metà del Settecento. La marina era stata frequentata nel Cinquecento da una colonia di spagnoli, dediti alla pesca delle spugne, di cui erano ricchi i fondali della scogliera. L’ultima grande invasione “turchesca” ha luogo il diciannove giugno 1638. Ben sedici galee e due galeotti, con una ciurma folta di bisertani, algerini e tunisini, sbarca in prossi- mità della marina e della spiaggia sassosa di “Praicciola”. I “turchi” si dirigono verso la porta Palmenteri ed il monastero di Santa Maria delle Grazie e devastano la città. La popolazione per lungo tempo vivrà nello sconforto e nella paura: continuerà ancora a guardare con sospetto al mare. Ancora nella seconda metà del Settecento sono segnalate in prossimità dell’arenile soltanto delle baracche rustiche e precarie, costruite con frasche, dove i marinai custodiscono le reti e gli attrezzi per la pesca. I marinai dell’importante centro tirrenico, dediti alla pesca ed a piccoli traffici via mare, vivono ancora nella parte bassa del paese, nel rione Palmanteri, che sorge su una collina di granito e si presenta come un balcone naturale, affacciato sul mare. Le persone raccontano, ancora oggi, quasi con un senso di liberazione, di una violenta tempesta che, sul finire del Settecento, costringe l’equipaggio di una piccola imbarcazione a liberarsi del pesan- te carico che trasportava. Cessata la tempesta, un giovane pescatore si accorge che qualcosa galleggiava, nel tratto di mare all’altezza del rione “marinella”, mandando uno strano luccichio. Pensa si tratti di un tesoro o, comunque, di qual- cosa di valore, e con un suo parente coetaneo si precipita, percorrendo uno stret- to sentiero, verso la zona dell’attuale borgata marinara. Giovanni Di Capua, il più anziano pescatore di Nicotera, discendente del pescatore che avvistò la cas- sa, ha fornito di recente un dettagliato resoconto di quella vicenda, raccontata e tramandata in famiglia e nella comunità di pescatori: I “Rinaldi” (così vengono conosciuti i componenti della famiglia Di Capua) e gli “Sguizzeri” (così vengono chiamati i componenti della famiglia Saladino), discendenti del marinaio accorso verso la spiaggia, insieme al giovane che vide luc- cicare la cassa, ricordano, con orgoglio, l’evento miracoloso, all’origine del cul- to e della nuova comunità lungo la costa.I due giovani marinai, parenti e vicini di casa, corrono immaginando il possibile ritrovamento di un tesoro, ma, giunti sulla spiaggia, si accorgono che la cassa, trascinata dalle forti correnti, si era ormai spostata, dal punto in cui l’avevano avvistata, in prossimità del “Fosso”. Con la collaborazione di altri familiari, recuperano la cassa misteriosa, nella quale rinvengono la statua dell’Immacolata, oggi collocata nell’omonima chiesa di Marina di Nicotera. La memoria orale segnala il ruolo decisivo che appartenenti alle famiglie La Valle, Capria e Carbone (di cui esistono ancora discendenti) hanno avuto nel recupero della statua e nella fondazione del culto. Non è possibile avere certezze circa la provenienza della statua, ma ci troviamo, con ogni evidenza, dinnanzi a un raffinato manufatto di scultura lignea napole- tana della fine del XVIII secolo, che ricalca un modello abbastanza diffuso, di cui bisognerebbe identificare la matrice. La leggenda che si tramanda a Nicotera narra che in quel periodo altre statue di Madonne sono state avvistate e “portate in salvo” a Santa Maria di Ricadi, Tropea, Bagnara, Villa San Giovanni e sulla spiaggia dell’odierna San Ferdinando. Di Stilo ipotizza che «qualche bottega d’arte napoletana, servendosi dello stesso veliero, abbia contemporaneamente indirizzato a chiese e conventi calabresi e siciliani diverse sculture». L’imbarcazione, giunta nello stretto di Messina, si sarebbe imbattuta in una tempesta così violenta che l’avrebbe mandata alla deriva, facendole perdere l’intero carico. Le correnti marine avrebbero portato le statue in diverse località, dove poi sarebbero state recuperate dai pescatori. Il mito di fondazione del culto dell’Immacolata a Marina di Nicotera parla di un evento unico, eccezionale e miracoloso, avvenuto, come avrebbe detto Ernesto De Martino, «una ed una sola volta nella storia». Nello stesso tempo ricalca dei topoi narrativi, religiosi, leggendari che hanno una storia di “lunga durata” e che trovano significative analogie con altri “straordinari” rinvenimenti (o apparizioni o sogni) verificatisi, nel corso dei secoli, nella regione e nel Mezzogiorno d’Italia. Dopo il ritrovamento della statua, giunsero in marina due signori che si dichiaravano proprietari della scultura e ne pretendevano la restituzione. Non riescono, però, a spostare la statua dal piedistallo, su cui i pescatori, nel frattempo, l’avevano sistemata, all’interno di una chiesetta dedicata all’Annunziata, edificata nel 1755 nel luogo in cui prima sorgeva un monastero di San Francesco d’Assisi. Nel 1819 gli abitanti della marina sono ormai circa duecento; nel 1832 la chiesa viene dedicata alla Madonna Immacolata. Si affermano, lentamente, una ricca attività peschiera e una cultura marinara. La processione con la statua lignea dell’Immacolata, portata a spalla da appartenenti alle diverse categorie sociali, esce dalla chiesa parrocchiale. Dopo aver percorso le strade interne dell’abitato, giunge in via marina, e qui entrano in scena i pescatori che, tra canti, preghiere, e ripetute esclamazioni di “Evviva Maria”, prendono in consegna la statua che trasportano fino alla spiaggia. Giunti in riva al mare, si immergono scalzi nell’acqua, bagnandosi fino alla cintola e a volte fino alle spalle e alla testa, e percorrono il tragitto, compiuto a suo tempo dalla cassa con la statua della Madonna. I portantini camminano dal luogo in cui è stata avvistata la statua al luogo in cui è stata recuperata: disposti sotto le stanghe che sostengono la vara, vengono guidati da due timonieri, sistemati uno a prua e uno a poppa di quella “barca umana”, che debbono fare veleggiare parallelamente al litorale. L’abilità dei timonieri (due tra i più anziani ed esperti pescatori) e dei portantini consiste nel non fare subire alla statua, durante il percorso nell’acqua, sbalzi o ribaltamenti. Portare la Madonna è un privilegio che si eredità. Nella festa e nella processione a mare hanno un ruolo di primo piano i discendenti delle persone che hanno avvistato e recuperato la statua. Quando, dopo un tragitto di quasi trecento metri, raggiunta la contrada Fosso, i pescatori escono dall’acqua, attraversano un ampio arenile e tornano in via marina, dove restituiscono la statua ai «portantini di terra». Questi percorrono le rimanenti vie del paese e riportano la statua in chiesa seguiti da una folla festante, che precedentemente, dalla piaggia, dalle barche, dalle vie in prossimità del mare, aveva seguito il corteo a mare dell’Immacolata. I pescatori manifestano l’orgoglio di essere protagonisti di un rito nel quale si riconosce tutta la comunità.
Sul culto e suella festa dell’Immacolata a Nicotera e in Calabria rinvio a: V. Teti, Il senso dei luoghi. Memoria e vita dei paesi abbandonati, Donzelli, Roma, 2004 (n. ed. 2014); V. Teti, Culto dell’Immacolata, organizzazione dello spazio e costruzione dell’identità, in L’Immacolata nei rapporti tra l’Italia e la Spagna, a cura di A. Anselmi, De Luca, Roma, 2008; V. Teti, Terra Inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015.