Nicotera è stata sempre una città originale. e questa sua originalità ha pervaso anche le scelte politiche-amministrative che hanno determinato l’assetto urbanistico e territoriale. Difatti, mentre in altri paesi calabresi sentiamo spesso parlare di paese-albergo, a Nicotera ci si è orientati – sopratutto in quella enorme zona urbanizzata comunemente chiamata “Filippella” (con i quartieri limitrofi di Rione Madonna della Scala e Pozzo) verso il “paese dormitorio”. E non hanno neanche azzeccato il nome perchè era dove sorge adesso il plesso ospedaliero cittadino che sorgeva il convento dei frati di San Filippo Neri e quindi sarebbe stato più corretto chiamare “Filippella” l’ultimo segmento urbano di Via Corte, sorto proprio ai piedi dell’ospedale. Ma va bene, siamo originali anche nella toponomastica.
Un tempo, questa zona, era un polmone verde che cingeva la città con splendidi terrazzamenti ma quando – tra la fine degli anni settanta e la seconda metà degli anni ottanta – è cominciata l’urbanizzazione di questa zona, in un qualunque posto normale ci si sarebbe orientati nel preferire uno sviluppo armonico del territorio attraverso una rete di insediamenti abitativi di volumetria equilibrata e sopratutto intervallate da spazi verde o di socializzazione o per insediamenti commerciali, strade larghe e parcheggi. Invece oggi ci ritroviamo un intero quartiere – dove vivono ben 364 famiglie pari al 25% delle famiglie di Nicotera centro – che sembra uscito da una di quelle periferie degradate che spesso vediamo in tv: tutta una interminabili serie di anonimi palazzoni senza nemmeno l’ombra di un albero, di una panchina, senza una piazza e nemmeno un negozio. Un quartiere dove la gente che ci vive, passa solo una parte della giornata, dal momento che per qualunque necessità – dall’andare al lavoro al fare la spesa, dal recarsi in palestra al portare i figli a scuola – è costretta a prendere l’auto e a fare ritorno nel centro storico cittadino dove si concentrano tutti i presidi amministrativi o di pubblica utilità e gran parte degli esercizi commerciali.
Con la realizzazione di questo quartiere è stata in pratica sancito l’abbandono del centro storico, con la sua fitta rete di relazioni sociali e di solidarietà, si è spostata una porzione considerevole della popolazione cittadino verso questa sorta di “non – luogo” condannando a morte certa il millenario nucleo urbano della città (che sulla scia delle esperienze urbanistiche più avanzate dell’era contemporanea e non ultimo, sulla base delle raccomandazioni forniteci dalla cosiddetta “psicologia ambientale” potevano e dovevano essere invece interessate da massicci interventi di riqualificazione, riconversione e recupero degli insediamenti abitativi) senza in pratica crearne uno nuovo che fosse in grado di interpretare i bisogni di quella parte della popolazione che vi abita, tenendo presente che l’assetto urbano influisce persino sul comportamento sociale e sul benessere psico-fisico. E con l’aggravante che ignorando la vocazione insita nel campo plastico-spaziale del luogo, sono stati avviati in quest’area, processi di matrice speculativa che non solo hanno consentito la realizzazione di un insediamento urbano rivelatosi la negazione di ogni più elementare estetica ambientale ma hanno affossato l’economia cittadina che, illusa dalla “bolla edilizia” non ha per tanto programmato interventi (anche edilizi) nel settore turistico, quello si trainante e decisivo, o avviato le necessarie infrastrutture che necessitavano e avrebbero favorito lo sviluppo della città tutta.
“Ormai purtroppo c’è poco da intervenire e inoltre – come ci dice una residente – alla sciagurata gestione urbanistica, si è aggiunta nell’ultimo decennio la piaga della diffusione delle malattie tumorali che in questi tre quartieri sembra particolarmente alta, dato che non vi è quasi una sola casa dove non si conti un morto o un ammalato”.
Eppure qualcosa si può fare. Potenziare la pubblica amministrazione, incentivare il decoro urbano, piantare qualche albero, valorizzare l’antico mulino che si trova in quell’area, curare meglio le strade, dipingere, magari chiamando esperti graffitari come è stato fatto a Pizzo calabro, quei enormi muri di contenimento che sostengono le abitazioni e che conferiscono un aspetto grigio a questo quartiere dal quale, almeno, si gode per fortuna uno splendido panorama della città vecchia. Ma anche realizzare un qualche piccolo centro di aggregazione sociale per le tante persone che, al seguito della partenza dei figli, chi per studio e chi per lavoro, abitano ormai da sole in mezzo a questo “nulla di cemento armato”.
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