Il terremoto di Messina del 1908, è considerato uno degli eventi più catastrofici del XX secolo. Il sisma, che si verificò alle ore 5:21:42 (ora locale) del 28 dicembre 1908, danneggiò gravemente le città di Messina e Reggio nell’arco di soli 37 secondi. Metà della popolazione della città siciliana e un terzo di quella della città calabrese perse la vita. Si trattò della più grave catastrofe naturale in Europa per numero di vittime, a memoria d’uomo, e del disastro naturale di maggiori dimensioni che abbia colpito il territorio italiano in tempi storici.
Già dai primi minuti di quella tragica giornata, i sismografi misero in evidenza la grande intensità delle scosse senza però consentire agli specialisti di individuare con certezza la specifica localizzazione. Si potevano solo immaginare i danni provocati da un sisma di quella intensità. Gli addetti all’osservatorio Ximeniano di Firenze difatti annotarono: “Stamani alle 5:21 negli strumenti dell’Osservatorio è incominciata una impressionante, straordinaria registrazione: “Le ampiezze dei tracciati sono state così grandi che non sono entrate nei cilindri che misurano oltre 40 centimetri. Da qualche parte sta succedendo qualcosa di grave“.
Sul posto, le persone vennero colte dal sisma praticamente nel sonno. il disastroso evento interruppe tutte le vie di comunicazione (strade, ferrovie per Palermo e Siracusa, tranvie per Giampilieri e Barcellona, telegrafo, telefono), danneggiò i cavi elettrici e le tubazioni del gas fino a Villa San Giovanni e a Palmi e devastò particolarmente Messina, causando il crollo del 90% degli edifici. La città dello Stretto che, all’epoca, contava circa 140.000 abitanti, ne perse circa 80.000 e Reggio Calabria registrò circa 15.000 morti su una popolazione di 45.000 abitanti. Altissimo fu il numero dei feriti e catastrofici furono i danni materiali. Le scosse di assestamento si ripeterono con frequenza nelle giornate successive e fin quasi alla fine del mese di marzo del 1909. Diciassettemila persone furono ritrovate vive sotto le macerie di cui 13.000 circa salvate dai militari italiani, 1.300 dai russi, 1.100 dagli inglesi e 900 dai tedeschi che – in una incredibile gara di solidarietà internazionale nel clima disteso della Belle Époque – accorsero a dare man forte ai soccorsi.
Pochi in città però – cosa nota a studiosi e accademici – sanno che, anche Nicotera, fu al centro di questa drammatica storia. Una storia che forse solo i più anziani ricordano e che adesso, è intenzione degli amici del Centro Studi Nicoterese (CSN) – il nuovo organismo culturale sorto su imput dell’Accademia Internazionale della Dieta Mediterranea, che ne ha di recente approvato il regolmamento istitutivo e guidata dal direttore di Mediterraneinews, dottor. Antonio L. Monturo – riportare alla luce.
A Roma infatti, ignaro di tutto, verso il mezzogiorno del giorno dopo, il Presidente del consiglio Giovanni Giolitti cominciò a ricevere una serie di telegrammi molto simili fra loro. Provenivano tutti da piccolissimi comuni calabresi e siciliani e col linguaggio retorico e prolisso tipico del tempo, chiedevano tutti, con insistenza, aiuti urgenti, per i danni che si erano verificati nelle loro zone. Giolitti interpretò erroneemnte questi messaggi, come gli ennesimi esempi delle lamentele che negli ultimi anni gli erano pervenute dalla Calabria, lamentele che si erano moltiplicate, di pari passo con le scosse telluriche che dal 1905, in poi si erano susseguite, in quella regione.
Alquanto infastidito dal fatto che i sindaci meridionali, si rivolgessero direttamente a lui invece che al ministero dell’ Interno o al prefetto di zona, Giolitti, non intuì la portata del disatro. Non sapeva che trascurando frettolosamente quelle notizie, stava, in quelle ore decisive, dando il via a una lunga serie di inadempienze organizzative che avrebbero poi innescato polemiche feroci in tutto il paese e avrebbe ritardato la partenza della spedizione navale di soccorso, permettendo così ai russi e agli inglesi di arrivare nello Stretto prima della flotta italiana, costretta poi, di conseguenza, a ormeggiare in terza fila davanti alla città ormai nel caos più totale.
Nel 1908 il telegrafo, la grande invenzione che l’anno successivo avrebbe assicurato il Nobel a Marconi, collegava già da qualche anno le due sponde dell’ Atlantico, anche se un telegramma impiegava ben 16 ore a compiere il tragitto, e i cavi, composti da sette fili di rame coperti dalla guttaperca, si erano rotti più volte. La linea telegrafica attraversava il sud d’ Italia e la Sicilia, fortemente voluta dalla Gran Bretagna che poteva così tramite Malta e il Nord Africa comunicare con l’India, ma quel giorno funesto, i telegrafi di Messina e di Reggio Calabria tacevano, semplicemente perché lì non c’ era più nessuno che poteva ricevere o mandare alcun messaggio.
Il paese rimase quindi a lungo nella mancata percezione della gravità del disastro. Persino il primo dispaccio spedito da Antonio Barreca, che dovette percorrere a piedi diversi chilometri per raggiungere la stazione ferroviaria di Scaletta da dove, alle 15 e 30, poté spedire un telegramma con scritto semplicemente: “Messina distrutta”, non fu preso in considerazione a Roma o fu colpevolmente sottovalutato.
A Messina intanto, sede della 1º squadriglia torpediniere della Regia Marina, si trovava ancorate nel porto le torpediniere “Saffo”, “Serpente”, “Scorpione”, “Spica” e l’incrociatore “Piemonte”. Alle otto del mattino della stessa giornata del 28, la “Saffo”, riuscì ad aprirsi un varco fra i rottami del porto. I suoi uomini e quelli della Regia Nave “Piemonte” sbarcarono dando così inizio alle opere di soccorso. Non fu però possibile ritrovare vivo il comandante della “Piemonte”, Francesco Passino, sceso a terra nella serata precedente per raggiungere la famiglia e deceduto unitamente alla stessa a causa dei crolli. A bordo di questo incrociatore, alcuni ufficiali dell’esercito sopravvissuti al disastro e in accordo con le superstiti autorità civili, assunsero i primi provvedimenti per raccogliere e inquadrare il personale disponibile, informare dell’accaduto il Governo e chiedere rinforzi.
Allo scopo, l’incarico fu attribuito al tenente di vascello A. Belleni che con la sua torpediniera, la “Spica” e altre unità, lasciò il porto di Messina, nonostante le cattive condizioni del mare. “Era una bella nave della classe Sirio – ci dicono gli amici del CSN – costruita nei Cantiere Schichau di Eling presso danzica, città portuale sul Baltico, oggi polacca, allora tedesca. Era stata varata il 15 Luglio 1905 e vantava un dislocamento di 215 tonnellate. Lunga 52,35 metri, poteva raggiungere i 25,3 nodi di velocità. Aveva un equipaggio di 38 uomini e fu poi messa in disarmo il 4 marzo del 1923“.
La Spica – continuano quelli del CSN – guadagnato il largo cominciò a risalire la costa calabrese tirrenica del reggino in cerca di un telegrafo ancora efficiente, per raggiungere la prima località scampata alla violenza del terremoto avvenuto più di 12 ore prima, ma non riusci a trasmettere il messaggio di richiesta d’aiuto. Solo arrivata a Nicotera marina, riuscì – esattamente alle ore 17.35 – a trasmettere il seguente messaggio: “Oggi la nave torpediniera Spica, da Marina di Nicotera, ha trasmesso alle ore 17,25 un telegramma in cui si dice che buona parte della città di Messina è distrutta. Vi sono molti morti e parecchie centinaia di case crollate. È spaventevole dover provvedere allo sgombero delle macerie, poiché i mezzi locali sono insufficienti. Urgono soccorsi, vettovagliamenti, assistenza ai feriti. Ogni aiuto è inadeguato alla gravità del disastro. Il comandante Passino è morto sotto le macerie“. Ci vollero tre o quattro ore, prima che questo arrivasse a Roma – forse le linee telegrafiche erano parzialmente danneggiate, anche nel tratto a nord di Nicotera – e lo stesso giunse poi anche al ministro delle Marina.
La sera del 28, fu così convocato d’urgenza il consiglio dei ministri, mentre il capo del Governo Giolitti emanò le prime direttive relative alla macchina dei soccorsi. Si decise, a tal proposito, di allertare i comandi militari dell’Esercito e la truppa, mentre la Marina fece convergere dalle acque della Sardegna verso lo stretto di Messina una squadra navale composta dalle corazzate “Regina Elena”, “Regina Margherita”, “Vittorio Emanuele” e dall’incrociatore “Napoli”.
“E’ questo uno dei tanti episodi della storia patria – commentano gli amici del CSN – che ignoriamo. Ci si concentra a volte su storie che non reggono alla prova dei fatti – che la storia di fatti si nutre e si basa – mentre ci si dimentica delle cose importanti. Ed è solo un piccolo paragrafo del grande libro della millenaria storia della città. Ma ogni segmento è importante. Il senso della comunità si recupera anche attraverso la riappropriazione e la divulgazione del proprio passato”.