“Separare i figli dalle famiglie legate alle organizzazioni mafiose” sarebbe questa l’idea esposta, durante un’intervista al New York Times, da Roberto Di Bella, 53 anni, presidente del tribunale dei minori di Reggio Calabria. Anzi, Di Bella va oltre, “Dovranno essere trasferiti in altre zone dell’Italia – afferma – per creare una frattura generazionale e interrompere un ciclo di criminalità che si tramanda dai più vecchi ai più giovani”.
Di Bella spiega che i ragazzi non verrebbero “strappati” alle loro famiglie per nulla, ma perché “i figli seguono i padri. La ‘Ndrangheta si eredita – dichiara nell’intervista -. E’ nostro compito interrompere la trasmissione di questa cultura perchè lo Stato non può permettere che dei bambini vengano educati per diventare dei criminali”.
Il Nyt ricorda come, dal 2012, da quando, cioè, il magistrato è stato promosso presidente del tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, ha “separato” 40 ragazzi e ragazze dai loro genitori condannati per associazione di stampo mafioso, tutti tra i 12 e i 16 anni, affidandoli a famiglie e comunità del Nord Italia. “Un approccio controverso – evidenzia Di Bella – ma che si è rivelato molto efficace. Lontani dai contesti criminali d’origine non saranno più costretti a subire lezioni di mafia dai padri-padrini che non hanno paura del carcere né delle pallottole”.
Un’idea, quella di Di Bella, più volte esposta dal magistrato in altre interviste durante le quali ha spiegato che l’intervento scatterebbe solo quando la Procura viene a conoscenza di notizie sull’educazione mafiosa impartita ai più piccoli. “Talvolta – afferma Di Bella – ci troviamo di fronte a genitori latitanti, in carcere oppure assassinati. Perciò prendiamo provvedimenti nei casi di concreto pregiudizio, mai in via preventiva soltanto perché la famiglia è mafiosa. Interveniamo, perciò, nei casi di indottrinamento malavitoso e quando i ragazzini vengono coinvolti in affari illeciti”.
L’obiettivo è consentire ai minori di sperimentare realtà culturali, sociali, psicologiche ed affettive diverse da quelle che respirano nel contesto di provenienza. Nuove opportunità, dunque, nella speranza di sottrarli ad un destino ineluttabile di morte o, nella migliore delle ipotesi, di carcerazione.
Superata una prima fase di contrapposizione, talvolta anche aspra, contro questi decreti, molte madri dei ragazzi inizierebbero percorsi di collaborazione con la giustizia, quando, cioè, iniziano a comprendere che la logica non è punitiva, ma di tutela. In quel caso i genitori non ostacolano più quei percorsi educativi che vengono programmati nell’interesse esclusivo dei propri figli. “In gran segreto – afferma Di Bella – alcune donne disperate si sono presentate in tribunale a chiedere aiuto, implorandoci di allontanare quei ragazzi dalla terra in cui sono nati. Ci hanno pregato di portarli via perché in Calabria sarebbero stati uccisi dai clan rivali”.