GIOLITTI, LA GOBBA E IL SARTO

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Ai cento anni dell’ultima esperienza di governo di Giolitti che avrebbe potuto  impedire al Paese di precipitare di li a poco nella dittatura fascista se le forze politiche democratiche (Popolari, Socialisti, e Liberali) non avessero giocato, ieri come oggi (gennaio 2021) con le istituzioni, l’Associazione Anassilaos, congiuntamente con lo Spazio Open, dedica una conversazione,  ancora in remoto, del Prof.  Antonino Romeo.

Sono trascorsi ormai cento anni – esordisce il relatore – da  quando gli italiani, che pure nella primavera del 1915 lo avevano ricoperto di minacce e contumelie , fecero nuovamente appello alla sua consumata abilità, sperando che fosse sufficiente a portare il Paese fuori da una crisi istituzionale e sociale di difficilissima soluzione In effetti Giolitti era il più autorevole esponente della classe dirigente del tempo, era stato il dominus indiscusso della politica italiana in quei quindici anni iniziali del secolo, che non a caso presero da lui nome e che erano stati caratterizzati da un poderoso sviluppo in tutti i campi, con tassi di crescita e livelli di trasformazione che il nostro Paese avrebbe conosciuto soltanto negli anni del “miracolo economico” del secondo dopoguerra. Se non gli mancarono gli estimatori, fecero però più notizia i tanti critici e detrattori, alcuni dei quali giunsero a livelli di polemica molto aspri, amplificati dalla stampa che, in generale, non gli fu certo amica. I nazionalisti, e per essi il variegato mondo delle importanti riviste fiorentine quali «Il Leonardo», «Il Regno», «La Voce», gli rimproveravano la politica “del piede di casa”, programmaticamente lontana da ogni avventura e per niente attirata da miraggi di conquiste coloniali; i liberisti, come Einaudi e De Viti De Marco, contestavano la sua scelta protezionistica, discutibile certo sul piano dei princìpi perché favoriva rapporti impropri fra il governo ed importanti settori del mondo industriale e finanziario, ma pur sempre l’unica in grado di far crescere l’industria in un Paese ancora in forte ritardo; gli ambienti democratici tutti, ma in particolare quelli meridionali, lo accusavano di usare nel Mezzogiorno vergognosi sistemi clientelari, esistenti peraltro già da tempo, che favorivano la corruzione e il malaffare, tanto che Salvemini giunse a definirlo in modo bruciante «ministro della malavita». Si potrebbe pensare ad un difficile rapporto di Giolitti con il mondo della cultura e dell’informazione, ma la questione assume un rilievo diverso se pensiamo che in Italia i politici della concretezza e del riformismo efficiente non hanno mai avuto una grande accoglienza. Lo stesso Cavour è sì stimato, ma nel borsino dei padri del Risorgimento viene ben dopo non solo l’inarrivabile Garibaldi, ma anche dopo quel Mazzini che, a dire il vero, di risultati concreti ne ha conseguiti ben pochi. Il fatto è che esiste in Italia quella che molti studiosi chiamano «l’ideologia italiana», un miscuglio di populismo e di garibaldinismo, di gusto dell’azione e di partecipazionismo collettivo ed entusiasta, che svaluta sistematicamente ogni atteggiamento ispirato a logiche utilitaristiche, empiriche e positive, considerate impure e di qualità inferiore. Giolitti fu sempre esponente convinto di una politica basata sull’empirismo e sul buon senso, il che non voleva dire mancanza di obiettivi strategici, ma convinzione che essi potessero essere raggiunti solo con il passo metodico del montanaro e non con quello travolgente del bersagliere. Fin dal suo esordio politico del 1882 mise l’accento sulla questione sociale, auspicò accordi tra classi diverse, individuò nelle corrette rivendicazioni sindacali il mezzo per giungere a retribuzioni più eque, doverose sul piano morale e necessarie a mettere in moto il deficitario mercato interno: non era la rivoluzione, era soltanto, si fa per dire, un serio progetto di riforme sociali. Per renderle concretamente attuabili propose da subito, e la ribadì fino agli ultimi suoi atti di governo, una riforma tributaria che spostasse il carico fiscale sui ceti più abbienti, ma non riuscì mai a far passare questo provvedimento o, comunque, a renderlo davvero esecutivo. Operò in un Paese segnato da profondi squilibri, lacerato, come sempre, da un incoercibile spirito di fazione e cercò di tirar fuori da questo contesto problematico tutto quello che era possibile utilizzare, adattandosi alla «realtà effettuale» secondo l’insegnamento di Machiavelli. Come scrisse già nel 1896 in una lettera alla figlia Enrichetta «Il sarto che ha da vestire un gobbo, se non tiene conto della gobba, non riesce» e ribadì più tardi questo concetto nelle Memorie redatte in collaborazione con il giornalista Olindo Malagodi. Fu per questo accusato di cinismo e, in ogni caso, di non aver fatto abbastanza per ridurre il numero dei gobbi, ma forse era troppo pretendere che la politica potesse riuscire là dove la natura era deficiente. Sua moglie, Rosa Sobrero, soleva dire che il marito era stato costretto a far passare «gatti per lepri», un’altra immagine colorita di una coppia a cui evidentemente non mancava il gusto della battuta sapida. Restava l’amara verità di un mondo politico in cui le contrapposizioni ideologiche facevano premio sulla possibilità di risolvere concretamente i problemi e gli uomini politici preferivano essere precursori o profeti, ma mai operatori quotidiani nelle reali condizioni date da una storia assai problematica.

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