Gennaio è il primo mese dell’anno.
Il nome gennaio deriva dal dio romano Giano, divinità delle porte e dei ponti, che rappresentava ogni forma di passaggio e mutamento.
Giano era raffigurato con due facce: una rivolta al passato e una al futuro.
Secondo la leggenda, Giano fu re dell’antichissima Italia, e ospitò Saturno quando il vecchio dio fuggì per sottrarsi alle persecuzioni del figlio Giove.
Il luogo dove Saturno si nascose fu chiamato Lazio.
Fu allora che Giano, per gratitudine, ebbe da Saturno il dono della prudenza e la facoltà di vedere nel futuro come nel passato.
In questo mese il cielo è sempre grigio, fa freddo e la candida neve veste le montagne.
La campagna è spoglia, deserta, silenziosa.
Gli alberi alzano verso il cielo i rami nudi, che il vento gelido fa tremare.
Non si odono ronzii di insetti, né canti di uccelli.
Solo qualche passero saltella qua e là in cerca di cibo.
D’improvviso si leva un canto, piccolo, timido.
È lo scricciolo, principe delle siepi che canta dolcemente.
Saltella, di ramo in ramo, e il suo canto mi conforta perché in esso vive la certezza che la primavera tornerà.
Lo scricciolo mi viene a trovare, tutte le mattine ad Amato, si posa sull’albero di fronte alla finestra e “mi sorride”.
Il fiore del mese è il garofano che riporta al mio cuore i garofani che nonna Caterina curava con tanto amore.
Gli ultimi tre giorni di gennaio sono detti “i giorni della merla” che da sempre sono considerati i giorni più freddi dell’inverno.
Secondo una comune leggenda, deriverebbe dal fatto che una merla, in origine bianca, per ripararsi dal gran freddo di quei giorni, si rifugiò dentro un camino, dal quale emerse il primo febbraio tutta nera a causa della fuliggine.
Un’altra versione narra che “Gennaio”, stava in attesa di veder uscire la merla dal nido , per gettare sulla terra freddo e gelo.
Stanca delle continue persecuzioni, la merla un anno decise di fare provviste sufficienti, e si rinchiuse nella sua tana, al riparo, per tutto il mese, che allora aveva solo ventotto giorni.
L’ultimo giorno del mese, la merla, pensando di aver ingannato Gennaio, uscì dal nascondiglio e si mise a cantare per farsi beffe di lui.
Gennaio si arrabbiò e decise di chiedere in prestito tre giorni a Febbraio in modo da scatenare con bufere di neve, vento, gelo, pioggia.
La merla si rifugiò alla chetichella in un camino e lì restò al riparo per tre giorni. Quando la merla uscì, era sì salva, ma il suo bel piumaggio si era ingrigito a causa della fuliggine del camino, e così essa rimase per sempre con le piume scure.
Non ho mai amato gennaio, perché segnava e purtroppo lo segna ancora, il ritorno a scuola.
Una scuola che non mi appartiene, ma questa è un’altra storia.
Non lo amo perché troppo freddo, troppo spoglio, mi riferisco agli alberi che tendono al cielo le loro braccia nude.
Troppo triste, troppo lungo, troppo grigio.
Anche la spiaggia è triste e solitaria.
Sembrano tristi anche i gabbiani.
Una tristezza che tedia l’anima che attanaglia il cuore.
Gennaio è solitudine, vuoto, dolore, assenza.
I ricordi figli del tempo non ritornano mai, nemmeno se li invochiamo con forza.
Gennaio invece ogni anno ritorna imperterrito, dispettoso, gelido.
Saudade.
Al borgo natio, nel tempo che fu della mia infanzia, gennaio era diverso.
All’alba la brina impreziosiva la campagna, adornava di cristalli gli alberi, il prato e la siepe.
Le contadine raccoglievano le olive ed io le guardavo con ammirazione, sembravano sacerdotesse di Cerere.
Il profumo delle terra e delle olive danzava nell’aria.
Nel podere del nonno, le arance erano le piccole principesse profumate.
Nel pollaio le galline non razzolavano più, ma restavano in un angolino dietro una porticina, dove nonno aveva messo anche della paglia, affinchè non soffrissero il freddo pungente del mese.
Al borgo natio in tutte le case c’era il caminetto che gli anziani chiamavano “focularu” e il fumo che usciva dai comignoli danzava sinuoso nell’aria.
La fiamma del camino riscaldava la mia anima, mi faceva compagnia, mi coccolava.
La sera della vigilia della Befana si preparavano per l’ultima volta le zeppole, la notte poi la cara Befana era sempre generosa: tra i tanti regali ricordo con emozione Ciccio Bello e la mitica Barbie con la sua elegante ed accessoriata casa, i suoi vestiti e il suo camper.
Il freddo allora non mi faceva paura, faceva parte del normale avvicendarsi delle stagioni.
“ Ci voli puru u friddu”, dicevano le comari del paese.
E ancora: “U friddu faci moriri i nsetti”.
I contadini raccoglievano i broccoletti, la nonna cucinava i fagioli nel caminetto e poi friggeva le frittelle di melanzane, che aveva messo sotto sale “nel carneli” durante l’estate.
I profumi che danzavano in cucina erano indescrivibili.
Era un mondo ancora lontano dal mondo, un modo ovattato, diverso da quello che esisteva nei libri, che papà mi portava da Reggio Calabria.
Trascorrevo le mie giornate immersa nella lettura, mentre il fuoco scoppiettava nel camino.
Allora, solo allora, gennaio non mi spaventava.
Il borgo natio mi proteggeva, mi avvolgeva con il suo calore, la sua magia, mi accarezzava con i suoi racconti di fate e folletti, di principi e principesse.
Allora non avevo paura.
Il tempo sembrava lento, sembrava si volesse fermare e tenermi lì insieme al caminetto, ai miei libri, alla nonna ,ai miei sogni, al mio lettino caldo.
Al mattino mi svegliavo con il rumore della moto ape di Peppe Pillari, mamma mi preparava il latte con l’orzo, lo ricordo dolcissimo, papà partiva per Reggio Calabria.
Io sognavo libri, castelli, musica, teatro, cinema.
Sognavo, avvolta nella magia di quella che oggi chiamo la mia piccola Macondo e che ormai non esiste più.
Adesso che tutto è svanito, passato, trasformato, morto.
Adesso Gennaio mi fa paura, adesso è solo un freddo dolore che danza tristemente sul lago del tempo.
Di notte quando Selene splende superba nel cielo, io penso alla vecchia casetta nel podere del nonno, alla legnaia, al pollaio, alla voce dell’acqua che scorre nella “mastra”, fantasmi silenti si muovono tra gli aranceti e la mia anima diventa un lago di lacrime, gelide come il gelo di gennaio.