Il 21 dicembre del 1950 – settanta anni fa – si spegneva a Roma Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri, più conosciuto come Trilussa, il grande poeta romanesco. All’anniversario l’Associazione Culturale Anassilaos, congiuntamente con lo Spazio Open, dedica ancora un incontro in “remoto” disponibile sul sito Facebook di Anassilaos e su You Tube a partire da oggi.
A parlare del poeta sarà la Prof.ssa Francesca Neri la cui conversazione è inserita in un ciclo dedicato alla grande poesia vernacolare del nostro Paese. Dopo Pascarella dunque ancora un poeta romanesco al centro della riflessione dellas studiosa. Ma se Pascarella, come abbiamo potuto ascoltare nella precedente lezione, aveva elevato la poesia romanesca a livello epico, celebrando in Villa Gloria l’epopea e i valori risorgimentali ancora vivi, tanto da meritare l’elogio del Carducci; Trilussa, che si trova a vivere in una epoca che oggi definiremmo “di riflusso” e comunque lontano da quei sentimenti e da quegli entusiasmi che avevano ispirato il Risorgimento, nella “Italietta”, termine riportato in auge qualche giorno fa da Massimo Giannini, Direttore della Stampa, di fine secolo e agli inizi del Novecento, con i suoi aggiustamenti etici, le sue furbizie e ipocrisie (ma in realtà l’epoca giolittiana a cui spesso si riferisce con sprezzo tale termine è stata un’epoca di grande sviluppo economico e sociale) crea invece una poesia del quotidiano, una sorta di cronaca di quel mondo piccolo borghese e non solo, che si adatta e “prova a campare” tanto più che gli esempi privati e pubblici del Paese non sono poi così edificanti. Egli allora abbandona il sonetto (quello di Belli e Trilussa) e crea delle favole, di diverso metro e misura, che sotto la forma delle favole classiche di Esopo e soprattutto Fedro, racconta i vizi di una umanità fragile e senza orizzonti attraverso gli exempla forniti dagli animali. Nascono così le raccolte Ommini e bestie, 1908; Nove poesie, 1910; Le storie, 1915; Lupi e agnelli, 1919; Le cose, 1922; La gente, 1927 ed altre ancora. Egli è il poeta satirico dei suoi tempi che osserva con occhio indagatore, non scevro di quella malinconia che caratterizza sempre i “moralisti”, le vicende morali e politiche dell’Italia della seconda metà del Novecento e quindi attraverso il giolittismo e il fascismo. Alla notizia che il 1 dicembre del 1950 il Presidente Einaudi lo aveva nominato Senatore a Vita pare che abbia esclamato, quasi a non smentire la sua mordacità e quel sarcasmo che lo accompagnò tutta la vita, “M’hanno nominato senatore a morte”.
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