Un bilancio del pontificato di Papa Francesco secondo la voce del Priore di Bose, Enzo Bianchi

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La Comunità monastica di Bose è una comunità religiosa formata da monaci di entrambi i sessi, provenienti da Chiese cristiane diverse. Sin dalla fondazione, la Comunità di Bose promuove un intenso dialogo ecumenico fra le differenti Chiese e denominazioni cristiane. Il fondatore e priore della comunità è Enzo Bianchi. La comunità ha sede dal 1965 a Bose, frazione del comune di Magnano (provincia di Biella). La comunità vive la propria vocazione monastica nel celibato, nella comunione fraterna dei beni, nell’obbedienza al Vangelo e nacque l’8 dicembre 1965, giorno in cui si chiudeva il Concilio Vaticano II, quando Enzo Bianchi decise di iniziare a vivere, solo, in una casa affittata presso le cascine di Bose, una frazione del comune di Magnano (Biella). I primi confratelli giunsero tre anni dopo, e fra essi c’erano anche una donna e un pastoreprotestante. La comunità è composta da circa ottantacinque persone, uomini e donne, alcuni dei quali protestanti e ortodossi, cinque presbiteri e un pastore. Oltre alla sede principale e originaria, la comunità si è diffusa anche in altre località con delle fraternità: Gerusalemme, Ostuni, Assisi, Cellole di San Gimignano e Civitella San Paolo. I fratelli e le sorelle a Bose hanno fatto propria la vita cenobitica, secondo gli insegnamenti di San Pacomio, San Basilio e San Benedetto, composta di preghiera e lavoro. Unica “missione” della Comunità, infatti, è vivere secondo gli insegnamenti di Gesù Cristo. Nel 2016 alla Comunità viene assegnato il premio Heufelder per «il molteplice impegno a favore di un riavvicinamento tra le Chiese d’oriente e d’occidente

A guidarla è Enzo Bianchi, un religioso e saggista italiano. Nel 2000 l’Università di Torino gli ha conferito la laurea honoris causa in storia della Chiesa. Il 6 ottobre 2016 l’Università degli Studi di scienze gastronomiche gli ha conferito la laurea honoris causa. Nel 2008 e nel 2012 ha partecipato come esperto nominato da papa Benedetto XVI alle Assemblee generali del Sinodo dei vescovi. Nel 2009 con il libro Il pane di ieri, pubblicato da Einaudi, ha vinto il Premio Cesare Pavese Il 22 luglio 2014 è stato nominato da papa Francesco consultore del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.

L’articolo che proponimo ai lettori di mediterraneinews.it è apparso sull’ Osservatore Romano del 30 dicembre 2016 e riportato sul sito www.monasterodibose.it. 

“Papa Francesco, appena varcata la soglia degli ottant’anni, ha segnato con la serenità che lo contraddistingue i momenti tradizionalmente legati alla fine di un anno civile: l’incontro con la curia romana e i messaggi di Natale e per la giornata mondiale della pace di Capodanno. Vigilante e visionario, il Pontefice appare un uomo forte, in buona salute, un cristiano che si nutre di fede convinta, un pastore che conosce la sollecitudine per ogni pecora a cominciare da quella smarrita, per la Chiesa che presiede, per le Chiese cristiane tutte.

Presto si compiranno quattro anni dall’inizio del suo servizio papale e forse possiamo decifrare cosa abbia significato e significhi nella Chiesa e nel mondo la successione all’apostolo Pietro di un vescovo che proviene non solo, come si ripete, dalle periferie del mondo, ma anche e soprattutto dagli interiora ecclesiae. Occorre ascolto del suo magistero, ascolto della società e della storia nella consapevolezza che gli effetti di un pontificato sono la conseguenza non solo del Papa, ma anche dei collaboratori, chiamati a corrispondere alle sue intenzioni profonde.

Il primo elemento sottolineato da molti è che, con l’avvento di Francesco, si è sviluppato un clima nuovo, nel quale si sono sopite paure e inibizioni, un clima di maggiore libertà, come aveva auspicato Paolo VI nell’udienza generale del 9 luglio 1969: «Avremo quindi un periodo nella vita della Chiesa, e perciò in quella d’ogni suo figlio, di maggiore libertà, cioè di minori obbligazioni legali e di minori inibizioni interiori. Sarà ridotta la disciplina formale, abolita ogni arbitraria intolleranza, ogni assolutismo; sarà semplificata la legge positiva, temperato l’esercizio dell’autorità, sarà promosso il senso di quella libertà cristiana, che tanto interessò la prima generazione cristiana».

In anni non lontani, e spesso in Italia, si registrava una situazione dove prosperavano, determinando contrapposizioni e divisioni, quanti arrivavano ad accusare altri fedeli di scarsa fede cattolica, di eresia, in una logica sempre più esclusivista. Un clima che inibiva chi, avendo opinioni diverse, non aveva il coraggio di parlare. Questo clima è ormai memoria del passato. Papa Francesco non fa nulla che possa ispirarsi a una logica di contrapposizione ma, al contrario, cerca instancabilmente di destare comunione. Esistono sì gruppi e componenti della Chiesa che non si limitano a una critica rispettosa, ma si spingono fino a delegittimare il Pontefice con accuse grottesche e polemiche insistenti. Tuttavia non intaccano il clima generale che favorisce quella “opinione pubblica” nella Chiesa di cui già Pio XII nel 1951 lamentava la mancanza, clima che stimola il confronto e rende la Chiesa una comunione rispettosa delle diversità, e per questo spiritualmente più ricca, e vi è maggiore libertà teologica e pastorale nell’annuncio dell’unico Vangelo.

Questa diversità di doni è più evidente anche grazie alla mutata posizione dei movimenti nella Chiesa, favorita da Papa Francesco. Di alcuni si constatava una certa aggressività, narcisismo e autoreferenzialità che portavano a giudicare gli altri cristiani come mediocri e a percepirsi come la parte migliore della Chiesa: una realtà carismatica, che tuttavia rischiava di favorire posizioni da Chiesa parallela. La stessa Pentecoste, compimento del mistero pasquale, sembrava declassata a festa dei movimenti. Il Pontefice, senza alcun gesto di ostilità, ha accolto queste nuove realtà non chiedendo loro se non di resistere alle tentazioni del proselitismo, della testimonianza muscolare, del volersi contare, del professare la fede “contro”, ma di porsi invece nella sinfonia ecclesiale, proprio in obbedienza allo Spirito santo che li ha suscitati. Così la Chiesa si mostra oggi più che mai “popolo di Dio”, espressione cara a Francesco non solo per la matrice conciliare, ma perché capace di indicare la qualità quotidiana, “popolare”, non elitaria della comunità cristiana.

Ma ciò che in modo più evidente è accaduto in questo pontificato è il nuovo slancio conferito all’ecumenismo. Pareva stagnante, al punto che alcuni parlavano di “inverno ecumenico”, ma il Papa, con gesti inattesi e impensabili più ancora che con parole, ha ridestato quel desiderio di unità che aveva accompagnato la stagione postconciliare nella Chiesa cattolica e parallelamente nelle altre Chiese.

Mosso dalle convinzioni, ribadite più volte, che l’ecumenismo si fa innanzitutto camminando insieme e che il martirio di tanti fratelli e sorelle cristiani realizza un “ecumenismo del sangue”, il Pontefice ha fatto dei suoi viaggi delle pietre miliari del dialogo con le altre Chiese. A Torino ha voluto incontrare la comunità valdese, sempre rimasta nel cono d’ombra dell’ecumenismo cattolico. Cuba è stata la tappa imprevista e irrituale che ha coronato la sua tenacia nel ricercare l’incontro, come fratello, con Cirillo, patriarca di Mosca. La visita in Georgia si è rivelata capace di superare anche la non reciprocità nell’accoglienza ecclesiale. La presenza a Lund ha significato fare memoria, con le comunità protestanti, dei cinque secoli della Riforma: non per festeggiare una rottura della comunione ecclesiale, ma per rileggere quegli eventi cercando di evidenziarne le intenzioni evangeliche e per riconoscere di fronte all’unico Signore le rispettive colpe. Nessun Papa dopo Paolo VI ha osato quanto Francesco nell’andare incontro a un’altra Chiesa, a costo di umiliarsi nella propria persona purché il servizio papale potesse essere vissuto come un misericordioso presiedere nella carità.

Va poi evidenziato lo sforzo di Francesco per portare a compimento il concilio Vaticano II nel suo progetto di dialogo con il mondo e la modernità. La Chiesa è stata sovente tentata di esercitare il ministero della condanna, dell’intransigenza per il bene delle anime cattoliche; il Pontefice, per il bene di tutti, cristiani o meno, vuole instaurare una cultura del dialogo, un esercizio dell’ascolto della società e della storia, un discernimento per poter camminare insieme. Ecco perché la Chiesa è stata invitata con l’anno della misericordia, sigillo dei due sinodi, a essere inclusiva e non escludente, ad andare incontro a chi ha peccato, accordandogli il perdono di Dio e annunciando la misericordia senza confini.

Ma è significativo che proprio sullo stile e la prassi della misericordia il Papa abbia conosciuto e conosca l’opposizione più dura, una vera contestazione. Non si può tacere che ciò avvenne anche nei confronti di Gesù, come testimoniano i vangeli. Cosa lo ha portato alla condanna? L’annuncio del volto misericordioso di Dio, null’altro: Gesù non ha contraddetto la Torah, ma l’ha posta sotto il primato dell’amore fraterno e della misericordia di Dio. Sempre all’insegna della misericordia, “cuore per i miseri”, va compresa la sua passione per i poveri, gli ultimi, gli scartati della storia, le vittime della società: tutti figli di Dio, con la stessa dignità. Una «Chiesa povera e per i poveri» e dunque una Chiesa di “beati” secondo il Vangelo: questo desidera Francesco ed è ciò a cui si sente impegnato dal nome del santo di Assisi che ha voluto assumere. I suoi viaggi nel Mediterraneo, attraversato da migranti, la sua sollecitudine per loro anche nell’ammonire i potenti e i governanti del mondo svelano cosa gli brucia nel cuore.

Ora, se questi sono i segni distintivi del pontificato di Francesco, cosa attende ancora il popolo di Dio ascoltando le sue parole? Attende che la riforma della Chiesa, in capite et in membris, continui e si manifesti con chiarezza. Di riforma della Chiesa si parla da quasi dieci secoli e la Chiesa è semper reformanda. Il Papa è animato da questa intenzione e lo dichiara sovente: anche nel quarto discorso natalizio alla curia romana ha ribadito questo impegno.

Ma, come monaco che legge spesso il De consideratione di san Bernardo, mi permetto di avanzare alcune osservazioni. Innanzitutto non ci può essere riforma della curia senza riforma della Chiesa e, in primo luogo, della vita dei presbiteri e dei vescovi: è un rinnovamento urgente che tuttavia richiede molto tempo. Francesco ha ragione quando dice che la riforma della curia non può essere ridotta a rimozioni e sostituzioni di persone, ma deve essere conversione personale, cambiamento spirituale, fede in Gesù Cristo che è il Vangelo. Per questo una riforma della curia darà frutti duraturi solo se il Papa riuscirà ad attuarla con la curia stessa e la curia con il Papa, altrimenti non sarà possibile operare mutamenti efficaci in una realtà così complessa. Riforma della Chiesa significa una Chiesa meno mondana, che sa opporre resistenza alle tentazioni del potere, della ricerca del successo, che sa non solo servire i poveri ma anche imparare dalla loro cattedra.

Francesco, come riconoscono tutti, ha destato molte speranze e anche entusiasmi nelle Chiese, di cui non possiamo che rallegrarci. Ma bisogna ricordare ancora una volta che più la Chiesa brilla della luce del risorto più si scatenano le potenze demoniache che si rivoltano contro di essa, più la Chiesa è Vangelo vissuto e più troverà opposizione e persecuzione, come il suo Signore. Quando ascolto tanti semplici fedeli raccolgo la speranza che il Papa riformi poche cose essenziali, ma tali che non si possa tornare indietro”.

 

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