Africa nuovo eldorado dei petrolieri?

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Qualche anno fa in suo editoriale, Lucio Caracciolo direttore della rivista geopolitica Limes, esordiva affermando che “fino a ieri, si poteva disegnare il mondo senza l’Africa giacché pur cancellandola dal planisfero, l’equazione di potenza globale sarebbe rimasta immutata ma che oggi fare questo significava commettere un grosso errore”. Una analisi condivisa da quasi tutti gli analisti dal momento che,  oltre all’importanza del teatro africano nella cosiddetta lotta al terrorismo internazionale e all’emergere delle primissime potenze autoctone come il Sudafrica, nel Continente nero si giocherà una importante partita del dossier energetico internazionale.

Una conferma ci giunge ad esempio proprie in queste ore dal momento che, il Marocco e la Nigeria hanno firmato, la scorsa settimana, un grande progetto per estendere un gasdotto dell’Africa occidentale che non solo si proietta verso l’Europa, ma permetterà il collegamento tra molti paesi africani. Un progetto che vedrà coinvolti almeno 5-6 paesi africani – secondo quanto affermato da Salaheddine Mezouar e Geoffrey Onyema, ministri degli esteri dei due paesi in questione – che beneficeranno quindi, non solo dal profitto e dal valore generato, ma anche da un potenziale connessione ai mercati europei dell’energia, con l’obiettivo di diversificare il proprio portfolio energetico e affrancarsi dalla dipendenza dal petrolio.

E solo l’ultimo paragrafo questo, di una corsa al petrolio e al gas che sta coinvolgendo non solo quasi tutti i paesi africani ma anche potenze del calibro di USA e Cina. I primi ad esempio già soddisfano il loro fabbisogno energetico, per una quota del 15% del totale, con importazioni di greggio dall’Africa stessa. Recenti studi stimano a 105 miliardi di barili le riserve petrolifere africane a fronte dei 1300 miliardi di barili delle riserve mondiali. Le proiezioni fino al 2025 indicano la possibilità che l’Africa possa raddoppiare la sua quota di riserve fino ad un 20% di quelle globali. Restano poi ancora da valutare le riserve potenziali il che ha aperto una ulteriore competizione tra paesi produttori storici – Libia, Nigeria, Angola, ecc. – che aprono nuove estensioni alle aree di ricerca e quelli poveri che contano sulla fortuna dei vicini per ipotizzare lo sfruttamento di aree simili o geologicamente contigue, per diventare essi stessi produttori. Cospicue anche le riserve di gas che già qualche anno fa ammontavano a 458 trilioni di piedi cubi a fronte di una produzione mondiale di 6112 trilioni di piedi cubi. Anche qui in prima troviamo la Nigeria e i paesi che si affacciano sul Golfo di Guinea, seguiti da Algeria, Egitto e Libia.

La corsa all’oro nero sta comunque contagiando un po’ tutti. Esplorazioni petrolifere sono in corso in Marocco, Mauritania, Mali, Niger, Tanzania, Namibia, Mozambico e Madagascar. A queste si aggiungono le esplorazioni off-shore in altre aree del continente. E le ricchezze già scoperte e quelle supposte o sperate attraggono le maggiori compagnie internazionali, dalle americane Exxon-Mobil e Chevron Texaco, alle inglesi British Petroleum e British Gas Shell. A queste si aggiunge poi la cinese Cnoc (China National Offshore Oil Corporation) che importa già il 13% del suo petrolio dall’Angola e ha avviato progetti di sfruttamento in paesi come Sudan e Congo.

Resta un unico grande interrogativo. I popoli africani stanno realmente beneficiando di questa corsa all’oro nero e al gas? Pochissimo fino a questo momento. L’esempio dell’Angola è illuminante in questo senso poiché questo stato a visto in pochi anni svuotarsi le proprie casse statali, ha visto dissolversi i 5 miliardi del Fundo Soberano de Angola e infine ha visto il suo PIL contrarsi dal 12% del decennio 2002-2013 all’attuale 4%. L’Inflazione è salita al 14%e la moneta nazionale è crollata del 30% solo nell’ultimo anno rispetto al dollaro. Luanda è insomma finita in piena nella tipica trappola del binomio materie prime-economia petrodipendente.  E questo nonostante l’Angola stessa, si è aperta al mercato, ha integrato l’Opec nel 2005 e non ha mai minacciato nazionalizzazioni del settore, favorendo l’entrata di nuovi attori e infine può vantare un’ubicazione geografica favorevole ai trasporti marittimi tanto che un supertanker proveniente dalle sue coste può raggiungere le coste cinesi e americane in una settimana o poco più.

Le compagnie occidentali o cinesi centrano poco con questa debacle, mentre gli analisti puntano l’indice contro spese dissennate e la corruzione endemica dei governi locali, senza tralasciare poi la mancata democratizzazione di molti paesi.

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