“Sono solo bullshit”, cioé “cazzate”; cosi Craig Murray, ex ambasciatore britannico, ha bollato le rivelazioni della Cia sulla presunta interferenza russa nei risultati delle elezioni americane.
Murray non è un personaggio da prendere sottogamba; nominato ambasciatore in Uzbekistan nel 2002, fu destituito nel 2004 a seguito di accuse, poi risultate infondate, di condotta non consona. Per molti, però, Murray sarebbe caduto in disgrazia al Foreign Office per le sue denunce delle violazioni di diritti umani del regime uzbeko, in quegli anni fortemente coperto da Londra e Washington. Fatto sta che oggi, l’ex ambasciatore collabora con Assange (il fondatore di Wikileaks) e, per formazione culturale ed orientamento politico, non è proprio un simpatizzante di Donald Trump.
Come fa ad esserne così sicuro? Semplice: è lui ad aver ricevuto i documenti digitali in un parco di Washington, da “whistleblowers” (gole profonde) interne all’entourage dei Democratici, disgustati dalla corruzione della Fondazione Clinton e della candidata democratica.
Le affermazioni di Murray contraddicono la narrazione ufficiale che in questi giorni la Cia, i media americani e lo stesso Obama stanno alimentando e secondo cui, dietro la pubblicazione delle mail del Partito Democratico e dei collaboratori della Clinton, ci sarebbero hacker russi direttamente mobilitati dal Cremlino. Wikileaks non ha mai smentito Murray anche perché le sue rivelazioni confermano quelle di Julian Assange il quale aveva già dichiarato che la fonte delle mail pubblicate non era la Russia.
Un teorema debole
D’altro canto, fino ad oggi, nonostante l’impegno ossessivo della Cia e dei media non solo americani, manca la prova concreta, la pistola fumante che dimostrerebbe che c’è il Cremlino dietro la vittoria di Trump.
Anzi al contrario emergono molti elementi che mettono in dubbio questa teorema: per esempio il fatto che il primo organo di stampa a rilanciare le accuse della Cia (e tuttora il più attivo) sia stato, il 9 dicembre scorso, il Washington Post il cui proprietario, Jeff Bezos, è anche il fondatore e Ceo di Amazon, azienda internet che, per la modica cifra di 600 milioni di dollari, gestisce tutto il cloud computing della Cia stessa. Insomma quando la libera informazione è una partita di giro.
Non solo, ma secondo il New York Times le prove dell’hackeraggio russo sono contenute in un report realizzato dalla Crowd Strike, la società di sicurezza informatica (presieduta da Shawn Henry ex capo della Divisione informatica dell’FBI) chiamata dal DNC, non appena i primi computer sono apparsi violati.
Murray sottolinea che questo report è pieno zeppo di elementi poco credibili: per esempio il fatto che uno dei presunti hacker russi (il cui nome è Guccifer 2.0) si è messo a rispondere alle domande di un giornalista di Motherboard (il sito sulla tecnologia di Vice) fingendosi rumeno ma venendo smascherato perché beccato a tradurre con Google Translate; o che uno dei membri di questo team di presunti hacker russi si facesse chiamare Felix Edmundovich, lo stesso nome del fondatore della Ceka, la polizia segreta sovietica (giusto per non lasciare tracce); o ancora che gli “hackerbusters” Usa avrebbero trovato collegamenti difettosi che riportavano ad indirizzi Ip di Mosca; o addirittura che questi sofisticati hacker russi avrebbero lasciato documenti in word in cirillico.
Insomma, talmente tante leggerezze che, come afferma lo stesso Murray, sembra che Putin abbia fatto gestire la più importante operazione di spionaggio russo all’ispettore Clouseau, quello della Pantera Rosa.
Il vero pericolo per la democrazia americana
In assenza delle prove che la Cia ha promesso di portare, sul coinvolgimento di Putin nell’elezione di Trump, rimane il dubbio che questa storia serva ad altri scopi. La sensazione è che la Cia, dopo aver promosso colpi di stato e regime change in tutto il mondo, ora lo stia facendo a casa propria, cercando di rovesciare il risultato elettorale uscito nel novembre scorso.
Trump segna una rottura chiara con la politica anti-russa che la Cia e l’apparato neocon di Washington hanno imposto in questi anni e l’obiettivo è scongiurare l’ingresso alla Casa Bianca del nuovo Presidente dietro un’accusa di tradimento e collusione col nemico; anche a costo di stravolgere la democrazia americana.
Qualche giorno fa Harry Reid, anziano leader del Partito Democratico, ha chiesto le dimissioni del Direttore dell’Fbi, James Comey, accusandolo di essere stato a conoscenza dell’ingerenza russa nella manipolazione ma di aver taciuto per la sua appartenenza storica ai repubblicani (che è come dire che Putin poteva controllare persino l’Fbi); risultato, due giorni dopo l’Fbi si è affiancata alla Cia nell’accusare la Russia di ingerenza nelle elezioni per la Casa Bianca.
Insomma, sembra chiaro che non è Donald Trump il vero pericolo per la democrazia americana.
Fonte : Il Giornale.