La tradizione della dieta mediterranea veniva scandita anche da ricorrenze speciali in cui la tipicità gastronomica si univa all’osservanza e alla celebrazione delle festività di carattere religioso, caratterizzandosi quindi per la preparazione e l’offerta di cibi speciali che nell’immaginario collettivo si associavano agli elementi più propriamente sacri dell’evento religioso. Così, per il Natale, l’abituale morigeratezza dettata anche da condizioni economiche mediamente modeste, cedeva in tutti i modi alla generosità delle 13 portate, “i tridici cosi“, che dovevano essere servite e gustate in occasione della cena della vigilia di Natale.
Si trattava di una consuetudine ispirata dalla credenza popolare che quelle “tredici cose” potessero favorire abbondanza e prosperità: il 13 infatti è, nella cabala meridionale e nella fattispecie calabrese, il numero della fortuna, e il cibo è per antonomasia simbolo del benessere e della salute. Ricordare questa antica usanza significa dunque riaffermare il potere evocativo e magico del cibo e del mangiare, quella sua versatilità ritualistica e scaramantica che ne arricchisce la specificità culinaria facendolo diventare, ancora più solennemente, elemento culturale primario, dato antropologico essenziale per la conoscenza e lo studio delle tradizioni sacre e profane, tra devozione e folklore, oltre che delle nostre tradizioni paesane.
Ma sin dalla giornata del ventuno dedicata a ”Santu Musicanti”, camminare per le strade e vicoli della città era un rientrare a casa senza alcuna voglia di mangiare, nel senso che si era sazi in quanto il profumo che era dato sentire era veramente succulento. Naturalmente l’odore delle zeppole era quello denominante; se ne faceva di tutte le fogge e di tutti i gusti con l’uva passa, col miele; molto caratteristiche erano le cosiddette “vecchie” al sapore di acciughe, broccoli ed uva passa, col miele con lo zucchero ed anche senza; un altro odore dominante era quello della zucca “cucuzza spagnola” anch’essa fritta con l’olio di oliva, e, poi, tantissime altre succulenti pietanze.
Come abbiamo innanzi detto, per antica tradizione le pietanze da consumare nel cenone di natale dovevano essere rigorosamente tredici e a questo numero nessuno transigeva, per cui alzarsi da tavola dopo tale scorpacciata doveva essere una vera impresa. Le donne nicoteresi non erano mai stanche di stare in cucina, il cucinare per loro era veramente un rito e poi bisognava anche pensare a quelle famiglie che erano nel bisogno oppure in lutto – in queste case le festività non venivano festeggiate e neppure si cucinava, per cui doveva supplire la comara o le amiche – e al termine del cenone non c’era la lavastoviglie, tanto meno c’era il gas per cui pulire la cucina era una impresa più del cucinare stesso. Le cucine di quel tempo erano infatti dei grandi ambienti in cui frontalmente campeggiava in muratura il “focolaio” a diversi fornelli con laterale il cosiddetto “foconi” e la vasca per lavare le stoviglie. Il fuoco era alimentato con la legna per cui quelle cucine erano nere nere per il fumo. Nel mese di settembre esse venivano imbiancate oppure prima della Pasqua.
Gli anziani raccontano inoltre che al termine delle varie funzioni religiose si prendeva il caffè presso una abitazione posta poco più giù del campanile della chiesa cattedrale, da una signora del posto, per questo forse chiamata “Maria du cafè”, la quale teneva già pronto nelle sue “cicculateri” il suo pseudo caffè, il cacao o le “pastiie” cotte dall’ottimo brodo. I più benestanti, invece, si portavano al bar Mercuri per sorbire un veramente eccellente caffè o un bicchierino di rosolio o di liquore.
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