Pino Neri arriva a Capo Vaticano per conoscere lo scrittore veneto. Lo trova intento a lavorare il suo orticello a poca distanza dallo strapiombo sul mare. L’accoglienza è garbata e gentile. Berto spiega al suo ospite il perchè della sua presenza in Calabria e Pino Neri, a distanza di parecchi lustri, rivive i momenti più significativi di quel loro dialogo.
Lo vidi Berto, per la prima volta a Capo Vaticano. Il cappello di paglia a falde larghe e vestito da contadino, come il Cincinnato della favola, zappava e sarchiava il suo pezzo di terra. E si che la terra, da quelle parti, è coltivata ed ordinata a file di cipolle, è fresca, sbucciata quasi sempre dai contadini, arata, amata, piena di un bel verde che scende in tenero declivio, tanto da coprire le asprezze di una natura selvaggia. La casa dello scrittore è un cubo, anzi due cubi di ordinaria fattura, per niente eleganti o piacevoli, com’è stato scritto, con intonaco grosso e riccio di fuori, con quello lievemente fino all’interno. E con un ammattonato di cotto che rende pregevole una qualsiasi casa a mare. Lui, Berto, appena ci vide spuntare, fu garbato e gentile, nonostante il periodo della nevrosi e delle angosce, dei “furori” famosi che lo resero inviso alla maggior parte dei calabresi del ricadese. Forse vinceva “le furie” con la bellezza dei posti. Di bellezza si può parlare davvero, perché il mare, legato ad un lembo di costa frastagliata, sembra entrare nella montagna verdescura, nelle piccole valli, tra i villaggi estivi, o unirsi al cielo terso e pulito, tagliato dal basso volo dei soliti corvi sul filo dell’acqua. Mi presentò a lui un comune amico, architetto, che stava consigliandolo sul da farsi, perché Berto pretendeva d’intendersi del rustico arredamento dei cubi. Aveva preteso un terrazzo che doveva dividere la strada comune dalla sua proprietà, avere il riserbo – diceva— privacy per quando, stanco della vita aretinesca del veneto, tornava in Calabria ad assumere il ruolo francescano. E volle, allora, pure un night all’aperto, con terrazzino sulla roccia a picco, quella che è a strapiombo sull’acqua, perché da quell’altro terrazzo, lontano dalla casa, ma sempre nella sua proprietà, avesse potuto guardare il limpido di alcune giornate o la bellezza della notte estiva calati sullo splendore di Capo Vaticano. Scrisse che con la Calabria gli capitava come le donne : <Quando sono lontano mi pare di volerle bene, per questo ci torno ogni tanto. Poi, quando sono laggiù, in una qualsiasi città o paese, mi sento soffocare dalla tristezza…Allora non mi resta altro che andarmene, proprio come una fuga>. Con noi non parlò della Calabria, né dell’attività nuova, turistico- mondana, ma del suo futuro di scrittore, dolendosi abbastanza del costume degli intellettuali italiani, del malcostume delle mafie letterarie, delle isole e dei clan (Moravia e il suo seguito ?).
E andava e veniva da un cassettone, posto all’interno di una camera tinteggiata a bianco, perché dovevamo bere con lui un secco, con la promessa che dovevamo ritornare, in tempi migliori, quando, più sereno, avrebbe potuto parlare meglio dei suoi progetti letterari, anche perché, schivo e riservato com’era, aveva già fatto e detto abbastanza. A me Berto, coi suoi modi di fare piacque poco. Anche perché allora non avevo letto che “Il cielo è rosso” e lo avevo trovato uno splendido racconto neorealistico, ricco di emozioni profonde e di personaggi della “grazia” che sono vinti dal male, dalla morte. Cercavo nello sguardo incomunicabile e nella parola laconica il discorso sul racconto. Discorso che non venne, sebbene provocato più volte. Era il periodo de “La Fantarca”, l’opera inventiva, buffa, umoristica, il divertissement di Capo Vaticano, la corale favola che vede i contadini meridionali trasportati su Saturno <a raggiungere quelli che li hanno posseduti, risolvendo cosi’ definitivamente la questione meridionale>. Qui nel Ricadese, dove la natura mostra la pace vera, con l’ampio mare e le coste colme di fiori di spiaggia, Berto trovò un momento di pace vera, ma ci apparve schivo e tormentato, gli stessi tormenti che veniva inserendo nel suo capolavoro : “Il male oscuro”.