Settembre 1920: l’occupazione delle fabbriche” è il tema della conversazione in remoto del Prof. Antonino Romeo promossa dall’Associazione Culturale Anassilaos e dallo Spazio Open, disponibile sul sito facebook di anassilaos e su YOU TUBE Cento anni fa, nel settembre del 1920, l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai di Torino, Milano e Genova turbò profondamente l’opinione pubblica italiana. Oggi sembra inconcepibile che la battaglia per il potere sia stata allora collocata nelle fabbriche, nel cuore cioè della produzione materiale, perché noi siamo convinti che il potere reale sia detenuto e determinato dalle forze della finanza o da quei centri capaci di controllare e regolare l’informazione. Cento anni fa, però, l’immagine di quegli operai che in armi pattugliavano i capannoni industriali, organizzavano e gestivano la produzione, sedevano nelle stanze dei “padroni”, mentre l’immagine della bandiera rossa che sventolava sulla Fiat, infiammò gli animi degli italiani che sentirono imminente la rivoluzione e accolsero questa prospettiva alcuni con entusiasmo, altri con cupa preoccupazione e desiderio di immediata rivalsa. In effetti non c’erano le condizioni per uno sbocco davvero rivoluzionario, che ripetesse quanto avvenuto in Russia nel 1917: lì c’era una classe dirigente screditata da una guerra rovinosamente priva di successi e il compito dei rivoluzionari bolscevichi era stato facilitato dall’appoggio largo ed interessato della Germania; in Italia la guerra, sia pure vissuta tra mille contrasti, si era conclusa vittoriosamente, l’esercito era forte e circondato di prestigio e gloria, lo stesso re era al massimo della sua popolarità, la Chiesa cattolica era baluardo naturale della conservazione , così come il mondo della finanza. In fondo ne erano convinti anche i socialisti, certamente la corrente riformista di Turati, ma anche i massimalisti di Gennari e Serrati, pronti ad enunciare a parole la rivoluzione, ma molto meno interessati a metterla davvero in atto. C’era, è vero, la minoranza dell’ Ordine Nuovo di Gramsci, Togliatti, Tasca, Terracini, Pastore, intenti ad individuare nei Consigli di fabbrica l’elemento che avrebbe consentito il superamento della proprietà capitalistica ed avrebbe anche potuto evitare il rischio del giacobinismo, paventato da Gramsci per i bolscevichi russi. Questi Consigli di fabbrica, però, erano boicottati dalla CGdL, poichè sarebbero stati eletti anche dagli operai non sindacalizzati, ed anche il Partito socialista li guardava con scetticismo. Bastò evocarli, comunque, per far nascere nel padronato il desiderio di una prova di forza, che schiacciasse subito e per sempre il movimento operaio e in questo senso si mosse la Confindustria già dalla primavera del 1920, quando combatté con tutte le armi a disposizione lo “sciopero delle lancette” partito dalla Fiat contro la reintroduzione dell’ora legale nelle fabbriche. Un mondo industriale decisamente in trincea, anche perché era tornato al governo Giolitti e questa volta con un programma che prevedeva l’avocazione allo Stato dei sovraprofitti di guerra, la nominatività dei titoli azionari, obbligazionari e al portatore, nonché un forte aumento delle tasse di successione sulle grandi fortune. Un programma che avrebbe meritato l’appoggio esplicito dei socialisti, i quali però, indecisi a tutto, non solo non appoggiarono Giolitti che, con tutti i suoi limiti, era pur sempre l’espressione più avanzata del mondo liberale, ma ovviamente non erano in grado di progettare disegni alternativi. In questo contesto le richieste avanzate dal sindacato nel Memoriale Buozzi e che avevano un contenuto salariale e normativo non certamente rivoluzionario, furono piegate dal padronato alla logica dello scontro frontale con la proclamazione, il 31 agosto, della serrata che obbligò gli operai ad asserragliarsi nelle fabbriche, in una lotta senza prospettive, perché nessuna rivoluzione si fa chiudendosi in un perimetro limitato. Dopo venti giorni di fortissime tensioni, la vertenza si chiuse con gli operai che strapparono importanti concessioni sul piano salariale e normativo. Ma se qualcuno aveva avuto l’intenzione di “fare come in Russia”, ebbene il tentativo era clamorosamente fallito e la sconfitta politica del movimento operaio fu il primo segno del più complessivo declino dello Stato liberale dinanzi alle scelte autoritarie compiute da una borghesia produttiva priva di un’ autentica visione liberale, che, quando invece esiste, mira sempre a conciliarsi con le esigenze della giustizia sociale.
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