ADUA E IL “MAL D’AFRICA”.

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Promossi  congiuntamente dall’ Associazione Culturale Anassilaos e dall’Associazione Culturale “il Salotto dei Poeti- “La rosa nel pozzo” hanno presso avvio ogni lunedì, da giugno ad agosto 2021 compreso,  presso la Fattoria Urbana Via Vallelunga  di Catona una serie di incontri all’aperto di arte, storia e cultura. Il primo incontro, relatore il Prof. Antonino Romeo, dal tema “Adua e il Mal d’Africa” è stato dedicato al ricordo, nel 125^ anniversario, della battaglia di Adua (era il 1à marzo del 1896) quando, nella conca di Mariam Sciavitù non distante da Adua, città cara al sentimento religioso dei cristiani d’Etiopia, l’esercito del negus Menelik II sconfisse rovinosamente i soldati del Corpo di spedizione italiano, che affrontò lo scontro con un nemico dieci volte più numeroso senza disporre di adeguate conoscenze del luogo e senza che fosse stato preparato un piano per il disimpegno e per la ritirata. «Tiriamo quattro granate ed è fatta», aveva detto il giorno prima il generale Da Bormida, uno dei quattro che poi avrebbero diretto le operazioni sul terreno, rivelatesi subito difficoltose perché la ristrettezza della conca non consentiva di usare al meglio l’artiglieria pesante e per il mancato coordinamento dei quattro settori in cui era diviso lo schieramento italiano. Il risultato fu drammatico: i morti furono 4666 fra i soldati nazionali ed un migliaio fra le truppe indigene, 707 i feriti, 1637 i prigionieri nazionali che vennero poi riscattati l’anno seguente con il pagamento di circa otto milioni al governo del negus. I prigionieri indigeni, accusati di aver tradito la propria gente, furono sottoposti al taglio della mano destra e del piede sinistro, perché rimanessero per sempre invalidi e fossero di terribile monito per tutti quelli che avessero voluto in futuro collaborare con lo straniero. Ma perché, si chiede il relatore, a così breve distanza dal Risorgimento fondato sul legittimo diritto di ogni nazione ad essere libera e a sottrarsi al dominio straniero, l’Italia cercava di assoggettare un altro popolo, uno Stato certo arretrato, ma con tutte le caratteristiche della sovranità e, come tale, riconosciuto dalla comunità internazionale? Il colonialismo esisteva ormai da secoli, Spagna e Portogallo prima e poi la Gran Bretagna e poi ancora Francia ed Olanda avevano costituito vasti imperi, molto più estesi dei rispettivi territori nazionali: la motivazione era sempre la stessa, convogliare nelle colonie il surplus delle loro capacità finanziarie e della loro produzione industriale, prendendo dalle colonie le materie prime di cui avevano bisogno in patria. Ma l’Italia soffriva da sempre di carenza di capitali, ancora alla fine dell’Ottocento l’industria nazionale raggiungeva livelli molto modesti di produzione e il Paese presentava aree di arretratezza diffusa e del tutto incompatibile con le esigenze della moderna civiltà. Il nostro colonialismo nacque negli anni Ottanta dell’Ottocento per sollecitazione della Gran Bretagna di Gladstone, che, preoccupato del protagonismo africano della Francia della Terza Repubblica, preferì associarsi sul Mar Rosso la più malleabile Italia, spingendola ad acquistare nel luglio 1882 la baia di Assab dall’armatore Rubattino: era una località con soli 160 abitanti, ma fu possibile piantarvi la bandiera e divenne il primo possedimento italiano in terra d’Africa. Tre anni dopo, sempre per sollecitazione britannica, occupammo l’importante porto di Massaua, primo nucleo della futura colonia Eritrea, e da quel momento fu necessario operare una scelta: Massaua poteva essere la base per proficui scambi commerciali con il Vicino Oriente, ma poteva diventare anche il punto di partenza per penetrare nell’altopiano etiopico. Anche se in modo ambiguo, fu questa la strada intrapresa e solo due anni dopo, il 27 gennaio 1887, le truppe del negus Giovanni IV assalirono e distrussero un avamposto italiano a Dogali. Negli anni seguenti si continuò in questa politica velleitaria, cercando di condizionare il nuovo negus Menelik con l’ambiguo trattato di Uccialli, puntando sulla rivalità fra i ras locali e fra i tigrini del nord e gli scioani del sud, estendendo la presenza italiana fino ad Adua, sia pure per brevi periodi, ma sempre senza disporre né di mezzi adeguati allo scopo né di volontà politica univoca, perché in Italia erano molte le perplessità su questa politica africana. Ma Crispi voleva l’espansione in Africa sia per motivi di prestigio sia, diceva, per venire incontro all’esuberanza demografica dell’Italia e questo portò fatalmente allo scontro con Menelik che, da parte sua, si stava impegnando a rinnovare il suo Paese per renderlo più concorde all’interno e più forte dinanzi alle mire altrui. Il negus ebbe gioco facile a compattare la sua gente in nome dell’indipendenza nazionale da difendere, ma il generale Baratieri, governatore dell’Eritrea ed amico di Crispi, non capì la novità politica rappresentata da Menelik né aprì gli occhi dinanzi ai primi rovesci che si registrarono tra il dicembre 1895 e il gennaio successivo. Con irresponsabile leggerezza si decise di affrontare in campo aperto un nemico molto più numeroso: e fu una tragedia che segnò a lungo la storia e l’immaginario collettivo degli italiani.

La politica africana dell’Italia non si interruppe, però, ad Adua, perché nel 1911-12 ci fu la guerra di Libia e poi, nel 1935-36, quella nuovamente contro l’Etiopia per cancellare la vergogna di quarant’anni prima. La nostra presenza in Africa si sarebbe conclusa nel 1943, con la sconfitta dell’Asse e l’abbandono definitivo della Libia, ma la vicenda coloniale avrebbe avuto un seguito imprevedibile. Dopo la guerra, alla Conferenza di Parigi del 1946-47 e nelle trattative con i vincitori, l’Italia repubblicana e non più fascista si batté tenacemente per conservare almeno le colonie prefasciste, l’Eritrea e la Libia: erano state conquistate con il sangue degli italiani, disse Croce in Senato, come se fosse un titolo sufficiente a mantenere un dominio che andava contro il diritto delle genti e contro i princìpi per cui si era combattuta la Seconda Guerra mondiale. Non se ne fece niente perché l’Italia, anche se non tutti ne erano consapevoli fino in fondo, era una nazione sconfitta e perché il clima di guerra fredda richiedeva la presenza in quelle zone di protagonisti più autorevoli: ci accontentammo di un mandato fiduciario dell’ONU sulla Somalia fino al 1960, tanto forte era evidentemente il bisogno di non abbandonare del tutto l’Africa. Nel frattempo, e fino all’aprile del 1953, mantenemmo in vita il Ministero dell’Africa italiana, assunto ad interim dal 1943 in poi da tutti i Presidenti del Consiglio, da Badoglio a De Gasperi. Anzi, per non farci mancare niente, dal 1951 al 1953 fu nominato pure un Sottosegretario, quel Giuseppe Brusasca che aveva svolto un ruolo importante a Milano nell’aprile 1945. Come nell’opera di Berni, insomma, l’africanismo «andava combattendo ed era morto»!

 

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