La casa.

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La casa,  rappresenta per tutti  il primo riferimento esistenziale, lo spazio in cui si dovrebbe sperimentare l’amore e il calore della famiglia, in cui si dovrebbe imparare il linguaggio della reciprocità.

La casa è da sempre sinonimo di radicamento, appartenenza e identità.

E’ a lei che vengono associati i primi ricordi, le prime esperienze di vita e le prime trame di relazioni.

La casa è il posto dove si può anche e soprattutto sognare, amarsi e amare, ma anche piangere in silenzio, cullare il proprio dolore.

Stanotte le Muse dopo avermi stordita con i loro canti , mi hanno riportata indietro nel tempo.

Mi hanno riportata nella casa dove nacqui.

Casa, che mamma aveva portato in dote, come si usava allora.

Nonna Teresa Gentiluomo  e nonna Grazia Mamone  avevano buttato nei pilastri tante monetine come portafortuna.

Ho rivisto tutte le stanze, il giardino e  il terrazzo.

C’era un corridoio e alle pareti  vi erano appesi dei quadretti rotondi con diversi animali raffigurati. Erano  degli omaggi del catalogo Vestro o Postal Market, non ricordo, perché mamma acquistava molte cose da entrambi, e ogni volta che la merce arrivava, per me era  una   gioia,  perché mamma  comprava sempre qualcosa  anche per me.

A destra c’era la stanza da pranzo che usavamo solo quando c’erano ospiti.

Più avanti la cucina, con una porta sul giardino, che io amavo infinitamente.

Sento ancora l’odore di quel giardino e vedo ancora la vite.

Io amavo il caminetto, perché tutti in paese ne avevano uno, allora papà mi accontentò e fece

costruire il caminetto.

Era una gioia per me,  se chiudo gli occhi vedo ancora l’affascinante e calda fiamma.

E poi ancora, c’era il bagno e dopo un  piccolo ripostiglio;  sulla sinistra c’era una piccola stanza, dove per  un po’ di tempo ho dormito con mia nonna.

Ricordo che al mattino, mi svegliava il rumore della moto di compare Peppe Pillari, quando partiva per il lavoro.

Il  pungente odore del fumo della moto, arrivava alle mie nari; dopo un po’ sentivo il canto del gallo ed io avvolta nel tepore del letto e il calore della casa, mi sentivo felice e  protetta.

Ricordo un angolo con il telefono e poi le scale che portavano al piano di sopra, dove c’era il salotto, con un balcone che dava sul giardino, la stanza da letto di mamma e un’altra una stanza dove gli ultimi anni ho dormito, prima con nonna e poi con mia sorella, un bagno minuscolo e un balcone che dava sulla via.

A destra c’era il balcone di Rosa Sgrò, la mamma di Pinuccio  e a sinistra quello di Grazia Mamone, cugina di mia nonna.

Ricordo   che c’era su una mensola una piccola cicogna rosa.

Mamma diceva che i bambini li porta la cicogna, ed io prima della nascita delle mie sorelline, immaginavo una cicogna che viaggiava per venire da noi.

Quello che amavo al di sopra di tutto, era il terrazzo con una  pergola d’uva, dove spesso mi rifugiavo per sognare, e dove immaginavo che oltre le montagne ci fosse il mare che io adoravo e una città con tante biblioteche e un teatro.

D’estate giocavamo  con  Pinuccio e  dopo ascoltavamo la radiolina che trasmetteva  le canzoni di  Umberto Tozzi e dei Matia Bazar. Non avendo fratellini,  consideravo Pinuccio  mio fratello.

Ricordo sua mamma Rosa, quando lavava i panni nel bidone dell’acqua, posto fuori casa.

In autunno, in cucina, c’era sempre il profumo dei broccoli che nonna cucinava ”affucati” e poi  il profumo della pizza  e del pollo al forno.

Profumi che oggi  ritrovo  solo  nei miei ricordi.

Come il profumo delle zeppole che la nonna preparava la vigilia dell’Immacolata e a Natale, il profumo, dei pomodori che essiccava al sole, quello della giardiniera di melanzane, il profumo del muschio che mamma metteva nel presepe, delle noci, delle olive, delle arance e dei mandarini.

Il giorno che abbiamo lasciato la casa dove sono nata, ho provato  tanta tristezza, mentre il trasloco era in corso, ho giocato per  l’ultima volta con Pinuccio, sentivo che stavo perdendo oltre la casa, anche mio fratello.

Quella casa mi manca, non dico che vorrei tornare ad abitare là, non lo farei se fosse possibile, quel tempo è ormai passato, ma per una sorta di perversione mentale, quella casa mi manca, o forse solo mi è rimasta nel cuore, nell’anima, la casa dove un mattino di dicembre ho visto  la luce, in mezzo agli ulivi e gli aranceti della Piana del Tauro.

Un’altra casa che porto nel cuore è quella di nonna Grazia.

Ricordo sul comò le foto dei miei bisnonni Gentiluomo Teresa e Vincenzo Mamone.

Nonna mi raccontava che la nonna Teresa era di una famiglia nobile di Molochio e per questo in paese la chiamavano a “milojara”.

Era figlia di  Saveria Vernì, il papà  era Gentiluomo di Sant’Eufemia.

Era innamorato della nonna , ma non essendo di  famiglia  nobile i signori Vernì non volevano dare il consenso alle nozze, allora lui minacciò di rapirla e così  per paura,   loro acconsentirono alle nozze.

La mia bisnonna ricordava che nella casa di Molochio,  dov’ era cresciuta, c’era una cassapanca sempre piena di cibo .

I suoi genitori in seguito si trasferirono a Cannavà di Rizziconi.

Nonna Teresa all’età di 25 anni non era ancora sposata, rifiutava tutti i pretendenti  perché aveva un solo desiderio: sposare il più bello del paese: Vincenzo Mamone.

E così fu.

Ebbero  6 figli : Luigi, Domenico, Grazia, Sara, Rosa e Italia.

Italia, così chiamata in onore della patria, morì subito dopo la nascita.

Mia nonna diceva “Italiuzza”.

La ricordava come una bambina bellissima.

La mia bisnonna ogni anno raccoglieva la ginestra e la metteva sulla porta come portafortuna.

Mia nonna Grazia alle Scuole Elementari si vergognava e quando la sua maestra le chiedeva di dire il suo nome, lei indicava sua cugina Rosa Surace, allora, la maestra le diceva che era impossibile si chiamasse come lei.

Come in  un quadro, i ricordi sono qui davanti a me: nonna Grazia che preparava il latte di mandorla, i pomodori, la pasta fatta in casa, il sapone.

In autunno l’aria intrisa del profumo delle noci e  del mosto.

Ricordo  Tina Longo che partiva per Altavilla Irpinia.

Il giorno prima della sua  partenza, abbiamo giocato per  l’ultima volta a casa di mia nonna.

Giocavamo e l’addio era nell’aria, tediava il mio cuore.

Da allora odio le partenze, odio gli addii.

Gli addii mi hanno sempre inseguita e il mio cuore è pieno di lapidi.

La nonna di Tina Pillari la chiamavano “a mandarina”, anche la sua casetta mi è rimasta nel cuore, era piena di cartoline che i figli le spedivano, se non ricordo male, dalla Francia.

Legate al ricordo di queste due case, come in una scatola cinese, escono fuori altre case e innumerevoli ricordi.

La casetta di comare Rosuzza , in fondo alla via dove abitava mia nonna.

Era minuscola.

Io ricordo la camera da letto con i mobili antichi, in particolare il comò dove aveva un sopramobile che assomigliava ad un lampadario di cristallo, regalo di un suo parente francese.

Un cucinino minuscolo che si accedeva da un corridoio.

Comare Rosuzza mi diceva sempre:

”Bellinida fatta apposta ti voliva lu re di costa ca ti vitti tnta beda ti voliva pe noriceda”.

Senza saperlo comare Rosuzza sentenziava il mio futuro, perché ho dato al mio primo romanzo il titolo:  “U Re Di Costa”.

Ma non solo , quando mia nonna decise che dovevo imparare a ricamare, ci mise tutto il suo amore ad insegnarmelo, ma niente, tutti i punti mi cadevano storti, lei rideva, “si mpara chianu chianu” diceva.

Poi un giorno,  comare Rosuzza arrivò all’improvviso, mentre io stavo facendo i compiti, si fermò sulla porta e mi guardò seria, guardò mia nonna e disse:

“Cummari dassati stari,  chista è fimmana di pinna e no di gugghia”!

Allora mia nonna si arrese.

Io nonostante il mio amore per la scrittura: amavo scrivere e per farlo scrivevo anche lunghe lettere ai parenti lontani e facevo lunghissimi temi per la scuola, non sapevo ancora che scrivere sarebbe stato il  mio destino.

E poi la casetta di comare Rosa.

Ricordo come se fosse oggi, il braciere.

Io, lei e mia nonna sedute, guardavamo la tv e mangiavamo dei mandarini, buttando le bucce nelle braci.

Le bucce bruciando, mandavano un profumo inconfondibile.

Ricordo persino il colore del pavimento: piccole chiazze bianche e nere.

A volte mi dava i confetti dei matrimoni e nonna  me li spezzettava nel fazzoletto.

Comare Rosa pensava che le  scene dei film fossero reali, e quando in una scena una bambina chiese ai genitori che doveva andare in bagno, lei guardando dentro lo schermo diceva:

”Fermati a machina a figghiola se non vaci o bagnu mori”.

Oggi tutti i confetti non hanno il dolce sapore di allora.

In quel tempo il  fidanzamento era un grande evento, i fidanzati offrivano  confetti a  tutto il vicinato.

Come grandi eventi erano i matrimoni, che mi facevano commuovere fino alle lacrime.

E non so perché ancora oggi mi commuovo e piango.

Recentemente ho letto, non ricordo dove, che la gente piange ai matrimoni perchè si rende conto dei propri fallimenti!

E poi ancora la casa di Concetta Sorbara con la credenza antica, lei apriva lo sportello e mi dava un pezzo di pane duro e profumato.

Vicino a lei c’era “u puzzicedu”, un piccolo pozzo dove c’era l’acqua solfurea, io adoravo quell’odore.

Ricordo il podere del nonno: a “forestola” con l’odore della zagara, delle noci, dei loti, della terra, e poi ancora  il pozzo , dove papà prendeva l’acqua.

Mentre papà prendeva l’acqua, io ballavo su un’alzatina di cemento e recitavo la Medea di Euripide, immaginando di essere un’attrice o una cantante.

Prima di andarmene controllavo tra gli alberi se le fate o gli elfi mi avevano lasciato un regalo, magari una bacchetta magica.

Ricordo il pollaio con i pulcini.

Dentro il pollaio c’era un albero di limoni  e l’odore dei limoni si confondeva con quello delle uova.

La gioia della nascita dei pulcini e l’arroganza del gallo che aveva uno sguardo cattivo.

Ancora ricordo i girini dentro lo stagno e la fiumara che, amavo guardare dal muretto, le rapsodie amorose delle rane.

E poi le fate, gli elfi i principe e le principesse.

Il rudere della casa dell’antico guardiano, quando a primavera insieme a mia nonna passeggiavamo tra gli ulivi del principe Ferdinando Acton.

D’estate la civetta intonava la sua malinconica melodia, mentre i grilli intonavano serenate simili a valzer notturni di violini fatati.

D’estate poi, il rosso dei papaveri, l’odore dell’erba fresca, dei gigli selvatici, delle margherite, del le campanelline e della camomilla.

Indelebile sono rimasti  in me i racconti di Maria Pellizzeri ,  diceva che i morti sono sempre accanto a noi e a volte attraverso dei segnali, ci avvertono sul nostro futuro.

E’ l’alba le Muse non vogliono lasciarmi, mi ricordano un’altra casa annegata sul lago del tempo.

Vedo una casa  piccola e graziosa, con le mattonelle in cotto , il camino con la fiamma che riscalda il cuore, il tetto di tegole, un piccolo giardino, le foto, i sogni, i profumi.

L’altro giorno, mi sono seduta un attimo sul divano a bere un latte di mandorla, alla tv c’era Wanda Marchi, diventata famosa negli anni 90 per le sue televendite, poi forse tutto le è sfuggito di mano ed è finita in carcere.

Wanda Marchi raccontava al giornalista la sua storia, e tra le altre cose mi hanno colpito queste sue parole: “La vita è come una piramide, finchè sei giù in fondo, nessuno si cura di te, sei come protetta. Ma ricordatevi se riuscirete ad arrivare in cima alla piramide, allora sarete esposti a tutti i venti. Ad ogni lato ci sarà un vento e c’è il serio pericolo che uno dei  venti vi possa travolgere e buttare giù”.

Allora ho ricordato che davanti alle mie proteste, al mio dolore di vivere al borgo natio, mio nonno diceva:

“Megghiu esseri testa i licerta ca cuda i leuni”.

Continuava spiegandomi che noi eravamo la prima famiglia del paese e che, invece in una città saremmo stati come gli altri.

Wanna Marchi aveva ragione, eravamo senza volerlo in cima alla piramide, e per questo poi  tutto è andato rovinosamente giù, c’erano troppi venti, troppi.

Mio nonno era originario di Cittanova, diceva che allora a Cittanova c’erano tre classi sociali: gnuri, massari e artigiani e loro erano i gnuri.

Sarebbe rimasto a Cittanova confuso con gli altri gnuri.

Chissà sarebbe stato diverso,  sarebbe stata un’altra storia.

Giordana Angi canta così:”  Casa inverno/casa senza senso/ Casa di silenzi vuota tutto il tempo/ casa stanca che ora vuoi lasciare/ Casa che io volevo costruire con te/E se non è con te, con te// E se non era un posto raggiungibile/Allora io mi fermo e smetto di cercare/Se non sei tu la casa io non so più abitare/.

Spesso la notte sogno la casa dove nacqui, spesso la notte sogno la casa annegata sul lago del tempo, e il canto dei passerrotti tra gli ulivi mi culla ancora.

 

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