L’arte di essere fragili, l’ultimo libro di Alessandro D’Alvernia

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Tutti siamo in cerca della felicità. Una felicità possibilmente duratura. Ma spesso rincorrendo questa felicità perdiamo di vista le gioie del quotidiano. Cosa fare allora? Una annosa e complessa domanda che Alessandro D’Alvernia, scrittore palermitano (classe 1977) e professore di Lettere in un liceo milanese, sceneggiatore e autore di libri bestseller –  da “Bianca come il latte, rossa come il sangue” a “Ciò che inferno non è” – ha tentato di fare con questo suo nuovo libro veramente bello.

Nel cercare di trovare una risposta a quello che decine di suoi coetanei e di giovani italiani in generale si pongono, lo scrittore compie così una rivalutazione del pensiero di quello che tutti, a scuola, abbiamo apostrofato come il pessimista per eccellenza e cioè Giacomo Leopardi che nell’immensa solitudine della libreria parterna di Recanati si poneva forse anch’egli gli stessi quesiti ed era oppresso dagli stessi dubbi. Un leopardi che come abbiamo appreso a scuola, trovò alfine la sua ragione di vita nella poesia mentre per noi – si chiede D’Alvernia – quale passione è in grado di farci sentire vivi in ogni fase della nostra esistenza? E quale bellezza vogliamo manifestare nel mondo, per poter dire alla fine: nulla è andato sprecato?

Lo scrittore quindi insiste sul fatto che il grande marchigiano un autentico “Cacciatore di bellezza”  –  intesa come pienezza che si mostra nelle cose di tutti i giorni a chi sa coglierne gli indizi, –  e cercò di darle spazio con le sue parole, per rendere feconda e felice una vita costellata di imperfezioni. L’invito è quindi quello di una riconsiderazione complessiva della sua figura e della sua opera che secondo lo stesso D’Alvernia può addirittura salvarci la vita come egli scrive a chiare lettere in questo libro che è strutturato sotto forma di carteggio intrattenuto tra lui e il suo mito letterario per eccellenza. Libro strutturato su sei distinte sezioni che segnalano i passi dell’esistenza umana e ciò che può illuminarli dall’interno.

E dalle pagine ne esce fuori il ritratto di un personaggio sorprendete e per molti versi inaspettato – un uomo che sapeva anche scherzare con la propria gobba (giocava alla lotteria toccandosi la gibbosità portafortuna con ironia) – che stuzzica il lettore nel  riprendere in mano le sue opere e i suoi canti più conosciuti, rileggere le sue poesie, di struggente bellezza.

Uno dei concetti-chiave dell’opera è quello del riparare, inteso come lottare per la bellezza per fare qualcosa di bello anche quando attorno a noi sembra che ci sia solo il nulla. Il libro è poi anche una difesa di tutti gli individui – uomini e donne – che difendono le cose fragili perchè sanno che sono le più preziose. E qui lo scrittore ci spiega che è la famiglia la prima sede naturale dove le fragilità di ciascuno emergono con più facilità ma che proprio questa fragilità – e il ripararsi a vicenda – può costituire una delle strade che conducono alla felicità. D’Alvernia poi invita anche a non lasciarsi irretire dalla convinzione che la felicità sia accaparrarsi la vita stessa quando, invece, la vita è felice solo quando la serviamo e a non farci rinchiudere nella cornice triste di una vita senza sogni anche quando la realtà sembra sbarrarci inesorabilmente la strada, cedendo invece a quello che Leopardi chiamava “gli attimi di rapimento” non lusso sfrenato di una notte ma bussola dell’intera esistenza. Il Libro inoltre contiene un esplicito invito a non giudicare mai chi non si conosce realmente perchè spesso le persone non sono quasi mai come vengono dipinte. Insomma per dirla con Leopardi stesso: c’è sempre una realtà dietro la siepe, un infinito da scoprire.

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