Caligiuri. A Londra, le forze speciali, hanno evitato una carneficina.

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Lasciata decantare l’emotività del momento, va detto che ill drammatico attentato di Londra si presta a letture ovvie e meno ovvie. Alla prima casistica appartiene la circostanza che la situazione è in gran parte fuori controllo, soprattutto in alcune nazioni (soprattutto gli ex imperi coloniali) e nelle megalopoli (destinate ad avere un ruolo geopolitico sempre più centrale negli equilibri del mondo). La seconda è che un attentato realizzato con modalità differenti, di sabato sera, in un luogo affollatissimo, ha avuto conseguenze limitate, poiché poteva avvenire una carneficina. Bisogna quindi dare atto alle forze speciali che in 8 minuti sono intervenute uccidendo i tre terroristi. Pertanto, quando si parla sistematicamente di fallimento dell’intelligence e della inadeguatezza delle forze di contrasto significa, secondo me, non avere inquadrato e compreso la reale dimensione del fenomeno.

Infatti, il tema non è registrare l’ennesimo episodio, fare la conta delle vittime innocenti, poiché la fattispecie è sempre la stessa: provocare la morte degli altri assolutamente incuranti delle proprie vite. Oggi quello che serve è prima di tutto capire (già difficile), quindi intervenire (ancora più difficile) e possibilmente prevedere (più difficile ancora).

Bisogna poi sgombrare un altro pesante luogo comune: la relazione tra terrorismo e immigrazione. Di ciò, non ci sono evidenze immediate, ma nel medio e nel lungo periodo  il rapporto diretto è evidente. Più che di dettagli su come si è realizzata l’ennesima mattanza, occorrerebbe riflettere piuttosto sui temi di fondo. Prima di tutto, sul ruolo dei media.

Negli anni Settanta, soprattutto in Germania e in Italia, si discusse molto se fosse il caso se silenziare o riportare le imprese del terrorismo politico: prevalse, e forse allora giustamente, la seconda linea. Adesso, vista la vastità e l’indeterminatezza della minaccia, non si può dare una risposta sbrigativa. Sarebbe davvero il caso di riflettere, ovviamente tenendo conto che l’informazione è in tempo reale e praticamente incontrollabile. Gli attentati vengono realizzati proprio per essere raccontati e amplificati, generando tensioni, incertezze, paure.

Non a caso, quasi in contemporanea, basta un falso allarme, come a Torino, e si è sfiorata la tragedia con oltre mille e cinquecento feriti. Aprire un’inchiesta giudiziaria su questo, mi sembra davvero surreale: si può “arrestare” il clima generato dai fondamentalisti di Allah? Pertanto si ritorna al nocciolo della questione: come si può davvero contrastare il terrorismo islamista. Basterà la sorveglianza globale? Servirà annullare la privacy dei cittadini? Emerge quindi il dibattito tra “libertà” e “sicurezza”.

Sono conciliabili o inconciliabili in questo momento storico? Di fronte a questo dilemma, analizziamo la risposta degli Stati, che avviene prevalentemente in due modi. Da un lato con affermazioni di principio e dall’altro con l’aumento delle sorveglianze interne e delle collaborazioni internazionali. Le prima lasciano il tempo che trovano ma sono utili e necessarie. Le seconde sono oggettivamente difficili dopo il crollo del muro di Berlino ma va detto che, soprattutto dall’attentato di Charlie Hebdo del gennaio del 2015, molti e importanti passi avanti sono stati compiuti. In tale quadro, assume un’importanza centrale il coinvolgimento e l’educazione alla sicurezza dei cittadini. In Italia, nel novembre dell’anno scorso è stato firmato appunto a riguardo un protocollo d’intesa tra il ministero della Pubblica istruzione e il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, sottolineando una giusta direzione.

Fonte: formiche

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