Gran Brexit. May sconfitta. Inghilterra nel caos.

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La più grave sconfitta parlamentare per un governo britannico in cento anni. Questo l’epitaffio con il quale Jeremy Corbyn, leader dell’opposizione laburista, ha definito il catastrofico esito del voto sulla Brexit per la premier conservatrice Theresa May. La débacle era ampiamente annunciata, ma le proporzioni dello scarto (432 a 202) fanno apparire l’esito della votazione umiliante. Si è trattato di una tempesta perfetta. L’accordo stiracchiato e zeppo di ambiguità col quale Londra aveva negoziato la sua uscita dall’Unione Europea è stato clamorosamente bocciato da una maggioranza trasversale.

L’Europa, croce e delizia per centinaia di milioni di cittadini del Vecchio Continente, nel Regno Unito ha aperto squarci che manco le Panzerdivisionen di Rommel sarebbero riuscite a provocare. Il motivo? Semplice, gli interessi finanziari e commerciali. Che non sono proprio “sovranismo”, anzi. La matura democrazia industriale inglese è frammentata, Le locomotive economiche del Paese sono divise e su fronti contrapposti. Per essere chiari, il nocciolo della questione non è la “solidarietà” nazionale e il richiamo alla bandiera, come fanno molti parrucconi.

No. La domanda che si fanno i sudditi di Sua maestà Elisabetta è: “Ci conviene restare in Europa?” Punto. Il resto sono orpelli di politica estera e sofisticate (e vacue) dissertazioni di diritto internazionale. I poteri forti inglesi sono divisi. Le banche la pensano in un modo, i grandi gruppi industriali in un altro. Le piccole imprese fanno i conti di quanto perderanno di export, mentre i lavoratori guardano con preoccupazione allo scellerato feeling con l’America di Trump e al possibile ritorno di un capitalismo delle ferriere.

Poi c’è l’incognita etnica. Gli scozzesi sono sul piede di guerra (contro Londra), i gallesi osservano la Brexit di sguincio e i nordirlandesi hanno già le mani ai capelli, pensando alle ripercussioni lungo la frontiera con l’Eire. L’accordo al ribasso, negoziato dalla May, è andato di traverso a tutti, scontentando anche molti conservatori. A Bruxelles si dicono “preoccupati”, ma sotto sotto stappano champagne: scappare dall’Europa è una pezza peggio del buco. Oggi è in vista un voto di fiducia. La May lo otterrà, ma se lo frigge, dato che una soluzione in tempi brevi per la Brexit sembra quasi impossibile.

Ci sono troppi interessi diversi. Insomma, la lite è sempre per la coperta e, all’orizzonte, anche se molti smentiscono, si profila il fantasma di un nuovo referendum. Abbiamo già scritto più volte che la scelta inglese di mollare l’Unione Europea è stata essenzialmente “umorale”. Certo, a Bruxelles hanno costruito un carrozzone cigolante e sbalestrato, capace di aggiungere burocrazia a burocrazia. Eppure, fatta un’analisi costi-benefici e mettendo da parte i peana e le “laudatio”, tutte robe per vecchi (e falsi) tromboni, la decisione degli elettori inglesi di votare no al referendum appare ancora incomprensibile.

Certo, la politica nazionale allora ha fatto la sua parte: la mancanza di forte convinzione dei conservatori, l’ambiguità dei laburisti, l’aggressività degli indipendentisti, sono tutti elementi che hanno avuto il loro peso (sottovalutato). Però più di qualcosa non torna e lascia perplessi. Qualcuno ha sbagliato i conti. Gli indicatori economici del Regno Unito, tutto sommato, quando si votò per il referendum erano soddisfacenti. E l’unica vera voragine, la bilancia dei conti correnti (-146,9 miliardi di dollari), casomai aveva necessità di un’Inghilterra che continuasse a rimanere dentro la blindatissima area di libero scambio di Bruxelles.

Infine, last but not least, resta da stabilire quale destino attenda ora la City londinese, una volta, con New York, capitale della finanza internazionale. Insomma, prossimamente su questo schermo ne vedremo di tutti i colori, con gli europei, nel bene e nel male, ancora attori protagonisti e gli inglesi chiamati a fare gli “stuntmen”, e a rischiare l’osso del collo.

di Piero Orteca. Per approfondimenti remocontro.it

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