Intelligence, Adriana D’Angiò al Master dell’Università della Calabria “Le garanzie funzionali degli operatori di intelligence”.

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Adriana D’Angiò – vice prefetto aggiunto,ha trattato l’argomento delle garanzie funzionali per gli operatori dell’intelligence, con specifico riferimento alle disposizioni della legge di riforma che prevedono che determinate condotte previste dalla legge come reato possano essere legittimamente autorizzate,di volta in volta e nei limiti previsti dalla legge, in quanto indispensabili alle finalità istituzionali del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, da cui discende l’eventuale applicazione di una speciale causa di giustificazione .
Il vice prefetto, in apertura, ha proposto, nella dimensione costituzionale e processualpenalistica, una definizione di talispeciali garanzie e la loro collocazione nella sistematica ordinamentale, tenuto conto che la loro previsione ricade nel più ampio quadro di tutele previste dall’ordinamento per garantire l’esercizio di una funzione – la tutela della sicurezza della Repubblica – reputata dal legislatore stesso fondamentale in quanto posta a salvaguardia dello Stato democratico e di beni giuridici ritenuti altrettanto essenziali.
Nella sua esposizione, la D’Angiò ha mosso da alcuni esempi, soffermandosi in primo luogo sugli approfondimenti della dottrina e sulle pronunce della giurisprudenza relative all’art. 68 della Costituzione, avuto cioè riguardo allo svolgimento delle funzioni proprie dei parlamentari, per poi analizzare la disciplina delle attività sotto copertura condotte dagli agenti di polizia giudiziariafino alla disamina critica delle disposizioni dell’articolo 17 della legge n. 124 del 2007 e delle norme correlate.
Il vice prefetto ha proposto un approccio ampio al termine di “intelligence”, non esclusivamente sovrapponibile all’attività dei c.d. servizi segreti, bensì riferibile, come metodo, a un insieme di attività di cui i pubblici poteri si avvalgono per la ricerca, la raccolta, l’acquisizione delle informazioni, la loro sistematizzazione e disseminazione per diversi fini connessi alla necessità di assumere decisioni.
Sono d’altro canto evidenti le peculiarità che caratterizzano l’utilizzazione del metodo dell’intelligence quando la ricerca delle informazioni, nel quadro dei principi di necessità, proporzionalità e adeguatezza, è volta al precipuo obiettivo di garantire la sicurezza della Repubblica quale bene supremo, come ribadito da diverse sentenze delle Corte Costituzionale fin dal 1977, ove appare indispensabile che il decisore politico posto al vertice del Sistema, il Presidente del Consiglio dei Ministri, disponga del più ampio patrimonio informativo per esercitare la sua alta e generale responsabilità. Funzione, quest’ultima, già presente nel nostro ordinamento secondo le disposizioni della prima riforma del sistema d’intelligence nazionale – la legge n. 801 del 1977 – ma che è stata rafforzata e resa se possibile ancora più efficace dalla legge del 2007 che, pur mantenendo un sistema binario fondato su due Agenzie operative, ne ha rafforzato la centralità attraverso nuovi modelli di coordinamento.
La D’Angiò ha precisato, sul punto, che la tutela di cui si sta parlando, in una visione contemporanea delle complesse esigenze di sicurezza del sistema-Paese, ha natura necessariamente omnicomprensiva, nel senso che riguarda diversi settori non più legati esclusivamente alla visione d’antan della sicurezza e alle tradizionali minacce, ma proiettata su scenari più estesi, che comprendono, a mero titolo esemplificativo, l’economia, la finanza, l’uso pervasivo delle tecnologie e la loro ricaduta sui rapporti tra gli Stati e sulle loro funzioni essenziali.
I Servizi di informazione per operare acquisiscono – nè potrebbe essere diversamente nell’età dell’informazione – elementi di conoscenza e di analisi dalle fonti aperte, operando su diversi livelli. Tuttavia, mentre l’identità della fonte e/o dell’informatore resta giuridicamente tutelata dall’art. 203 del codice di procedura penale, non sono rari i casi in cui sia indispensabile acquisire informazioni essenziali con il ricorso ad attività che, pur legittime dei fini, possono richiedere attività non convenzionali, cui la legge oggi offre strumenti legali di attuazione, con adeguate procedure di controllo, superando il ridondante successivo ricorso al segreto di Stato che caratterizzava il sistema previgente.
Nel merito, la D’Angiò ha specificato, per meglio cogliere gli aspetti innovativi della disciplina vigente, che nel sistema pre-riforma, qualora l’azione posta in essere dall’operatore dei Servizi di informazione avesse configurato una fattispecie di reato giunta all’attenzione dell’Autorità giudiziaria, seppure indirizzata alla tutela della sicurezza nazionale, la sola modalità di garanzia degli operatori risiedeva nell’opposizione e nella successiva apposizione da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri del segreto di Stato. Poiché, tuttavia, nei confronti dell’operatore si avviava comunque un procedimento penale, lo strumento, seppure astrattamente idoneo ad evitare una condanna, recava un vulnus evidente alla riservatezza che deve assistere l’essenziale funzione di tutela della sicurezza della Repubblica. Non sono stati peraltro rari i casi in cui l’apposizione del segreto, successiva, ha generato conflitti di attribuzione innanzi la Corte Costituzionale, le cui illuminate pronunce, che si sono in particolare soffermate sul fondamentale principio di oggettività del segreto e sull’impossibilità di acquisizione probatorie aliunde, si sono dimostrate tuttavia, per le ragioni esposte, insufficienti agli occhi del legislatore per una tutela preventiva e piena dell’agente operativo.
La soluzione del decreto Pisanu del 2005 che ha introdotto, per le intercettazioni preventive, una forma di autorizzazione rilasciata dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, previa richiesta del Direttore dell’Agenzia, appariva e tuttora appare parziale, in quanto riguardante il solo strumento delle intercettazioni, nonchè discutibile sotto il profilo della distinzione, nello specifico campo, tra compiti e responsabilità dell’Esecutivo e dell’Autorità giudiziaria, tenuto conto che spesso le attività d’intelligence presiedono alla tutela di un interesse politico della Repubblica non correlato alla commissione di reati, la cui esistenza sola giustifica l’intervento giudiziario.
Né il ricorso ad alcune visioni che pure hanno trovato spazio nel diritto penale, sebbene discusse e minoritarie, come la teoria dell’adeguatezza sociale – alla luce della quale la condotta, seppur conforme alla fattispecie tipica individuata dalla norma incriminatrice, può considerarsi non offensiva perché socialmente adeguata in quanto compatibile con il momento contingente e con le aspettative dei consociati – offrivano strumenti sufficienti da far valere in una fase che escludesse il processo fin dalle sue fasi iniziali.
Ecco allora che l’eventuale opposizione, fin dalla prima eventuale contestazione, dell’esistenza di una speciale causa di giustificazione correlata ad un’attività legittima e autorizzata, con le limitazioni previste nella legge rispetto a beni costituzionalmente comunque protetti, è sembrata al legislatore il punto di equilibrio più efficace per tutelare le attività senza escludere la possibilità dell’Autorità giudiziaria di intervenire ove si operasse in violazione di quei limiti ovvero oltre gli ambiti autorizzati. La dr.ssa D’Angiò ha dunque concluso illustrando come la speciale causa di giustificazione si inserisce nel sistema generale delle scriminanti previste nel diritto penale sostanziale, con particolare riferimento all’art. 51 del codice penale la cui eventuale applicazione, peraltro oggetto di una interpretazione particolarmente rigorosa e restrittiva da parte della giurisprudenza, è comunque fatta salva dall’articolo 17 della legge n. 124 del 2007.

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