Ieri Totò Riina compiva 87 anni e quello che sorprende, sono i quasi 500 like ottenuti nel post facebook del figlio piccolo di Riina con anche diverse decine di auguri per il boss. Nel post il figlio Salvo ha scritto: ” Per me tu non sei Totò Riina, sei il mio papà. E in questo giorno per me triste ma importante ti auguro buon compleanno papà. Ti voglio bene, tuo Salvo”. Questa notte alle ore 3.37, nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma, è morto il boss mafioso, in coma farmacologico da diversi giorni.
Salvatore Riina detto “Totò”, con Bernardo Provenzano, morto il 13 luglio 2016, formava la terribile e sciagurata coppia di Cosa nostra. Raffinati e brutali strateghi della ferocia. Riina, è l’immagine più cruda e netta dell’anima nera e stragista della mafia, di cui è ritenuto ancora il capo indiscusso. Stava scontando 26 ergastoli e dal 1993 era recluso al 41 bis. Una vita da uomo crudele passata a spezzare altre vite e poi, il destino, ha voluto che anche la sua vita si spezzasse ogni giorno da uomo, padre e marito fallito, incarcerato in regime duro, passando gli ultimi 24 anni da recluso, in isolamento, senza mai pentirsi.
Le origini, l’ascesa sanguinosa a Corleone
Nato a Corleone, cuore antico e profondo della Sicilia, in una famiglia di contadini il 16 novembre 1930, si legò presto al capomafia Luciano Liggio e a 19 anni fu condannato ad una pena a 12 anni, scontata parzialmente nel carcere dell’Ucciardone, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo. Da fedelissimo di Liggio prese parte alla sanguinosa faida contro gli uomini di Michele Navarra. Nel 1969 avviò la sua lunga latitanza che diede inizio alla sua ascesa, sancita ancora nel sangue, il 10 dicembre, con la “strage di Viale Lazio“, che doveva punire il boss Michele Cavataio.
Gli intrecci con la politica
Principale referente politico di Riina inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto solido con Salvo Lima. Seguì una serie di omicidi politici:
- il 9 marzo 1979 Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia cristiana;
- il 6 gennaio 1980 fu ucciso il presidente della Regione delle carte in regola Piersanti Mattarella;
- il 30 aprile 1982 il leader del Pci siciliano Pio La Torre.
Lo schiaffo al Padrino e la catena del tritolo, dalla Sicilia al Continente
Un duro colpo il potere di Riina lo subì il 30 gennaio 1992 quando la Cassazione – nonostante i tentativi di cambiarne le sorti – confermò gli ergastoli del Maxiprocesso e sancì l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal pentito Tommaso Buscetta: uno schiaffo al mito dell’impunità di Cosa nostra.
Il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso: si era alla vigilia delle elezioni politiche e, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò a Ignazio Salvo. A maggio l’attacco frontale allo Stato. La strage di Capaci nel quale fu ucciso Giovanni Falcone. Cinquantasette giorni dopo toccò a Paolo Borsellino, in via D’Amelio.
Nel ’93 le stragi del Continente. Una “catena del tritolo” oggetto di indagini anche da parte della Procura di Firenze, su cui si è fatta maggiore chiarezza dopo depistaggi e silenzi. –
In questo periodo sarebbe iniziata la presunta trattativa, al centro di un processo il cui primo grado è alle fasi conclusive. Cruciale il ruolo di esponenti dello Stato e Vito Ciancimino. Riina rispose alla richiesta di un accordo con il famoso Papello, finalizzato a ottenere la revisione del maxiprocesso, ad ammorbidire le condizioni dei detenuti, cancellazione della legge sui pentiti. Fu arrestato il 15 gennaio del 1993 dalla squadra speciale dei Ros guidata dal Capitano Ultimo, davanti alla sua villa, in via Bernini. Mentre restava libero Bernardo Provenzano, il ‘ragionierè di Cosa nostra, preso solo l’11 aprile 2006, dopo 43 anni di latitanza. –
Lo stato, la criminalità: il grande depistaggio
Un periodo oscuro e torbido di contatti obliqui tra pezzi di Stato e della criminalità organizzata rintracciati a cavallo delle stragi. Ed è stato necessario un quarto di secolo per diradare parte delle nebbie sulla verità delle stragi, perché Cosa nostra ha agito per compartimenti stagni. Nessuno dei primi collaboratori di giustizia, faceva parte del mandamento di Brancaccio. Nel 2008 però ecco Gaspare Spatuzza, poi il pentimento di Fabio Tranchina e per ultimo quello di Cosimo D’Amato. Alle loro rivelazioni si sono aggiunti riscontri formidabili.
Ad aprile scorso è arrivata la sentenza del quarto processo sulla strage Borsellino: un punto fermo dopo depistaggi, falsi pentiti, ombre di mandanti esterni. Un attentato micidiale eseguito dalla mafia, ma maturato in un clima di veleni anche fuori Cosa nostra; e segnato dalle inquietudini di Paolo Borsellino che si disse – sconvolto, incredulo e in lacrime – “tradito da un amico”. Anche qui l’irruzione di Gaspare Spatuzza ha consentito di aprire una nuova stagione giudiziaria e sgretolato le certezze arrivate dai precedenti processi per l’attentato che avevano resistito a tre gradi di giudizio.
Dalle carceri di massima sicurezza ha continuato ad essere un simbolo suggestivo del potere di Cosa nostra, un riferimento concreto per l’organizzazione in difficoltà. Da lì ha continuato anche al lanciare editti di morte, come – nel novembre 2013 nei confronti del magistrato Nino Di Matteo. Nella tomba il boss si porta tanti misteri, della mafia e non solo. La presenza, a esempio, di eventuali mandati esterni e il coinvolgimento dei servizi segreti rimane al momento solo un’ipotesi investigativa, non provata, ma su cui non si molla la presa. Il procuratore di Caltanissetta Bertone ha avvertito che “ci sono ancora buchi neri”. Il riferimento è anche all’agenda rossa del giudice Borsellino, mai trovata, e alle indicazioni fornite in aula da un ufficiale dei carabinieri: “Elementi che pongono la necessità di riaffrontare questo tema, per una ulteriore attività che dovrà essere svolta”.
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